Ufficiale degli Alpini, poi analista e banker tra California e Manhattan, oggi professore associato alla Tennessee State University, docente presso il New York Institute of Finance e fondatore di un broker-dealer registrato negli Stati Uniti. Chris Manfre racconta un percorso fatto di svolte radicali: il servizio nei Balcani, l’azzardo di ripartire da zero, a trent’anni, a Los Angeles, l’ingresso a Standard & Poor’s a New York. Poi la crisi del 2008, che gli apre la porta dell’accademia, fino a Bardi Co, la società che ha creato oltre dodici anni fa. In questa intervista Chris Manfre ripercorre le tappe, i dubbi e la sua idea di finanza come mestiere a contatto con il mondo reale.
Partiamo dall’oggi: dove vive e di cosa si occupa?
Oggi sono a Nashville, Tennessee, dove faccio un paio di cose. Sono professore associato alla Tennessee State University e insegno finanza, in particolare finanza aziendale e investimenti, quindi materie diverse ma sempre nell’alveo della finanza. Nell’ambito della finanza aziendale, insegno anche fusioni e acquisizioni presso il New York Institute of Finance, tramite il quale ho avuto l’opportunità di insegnare M&A a grandi gruppi internazionali quali Itaú, Industrial and Commercial Bank of China e Saudi Agricultural and Livestock Investment Company. Allo stesso tempo abbiamo ampliato la presenza della società che ho creato oltre dodici anni fa, Bardi Co: è un broker-dealer registrato alla SEC e membro FINRA/SIPC, cioè gli organismi che regolano il settore finanziario negli Stati Uniti, l’equivalente della nostra Consob, per intenderci. Un cliente d’eccezione della società è stata Monika Bacardi, della Bacardi Ltd, anche se non per il settore liquori ma per il mondo del cinema e di Hollywood. In sintesi dico sempre che studio la finanza, insegno la finanza e pratico la finanza. Dopo essere stato ufficiale degli Alpini il mio vero amore è diventato il settore finanziario.
Dato che ha aperto l’argomento, che legame c’è tra un professore di finanza e il mondo degli Alpini? Sembrano universi separati.
In effetti sono due universi separatissimi. A volte parlo di “universi paralleli” perché quello che facciamo è spesso il risultato delle possibilità offerte dall’ambiente in un dato momento. Da ragazzo pensavo che fare il militare fosse la cosa più speciale a cui potessi aspirare, ed è stato il mio primo amore. Le due cose – Alpini e finanza negli Stati Uniti – sono diametralmente opposte: dico spesso, non dalle Alpi all’Oceano Indiano, ma dalle Alpi a Wall Street. È stata la mia battaglia e la mia rivoluzione personale.
Torniamo al “primo Chris”: come entra negli Alpini, quanto dura l’avventura e perché si chiude?
La passione per la divisa ce l’avevo dalle superiori: un compagno di scuola aveva il padre tenente colonnello di fanteria che guardavo con ammirazione, e quell’idea mi è rimasta addosso. Con la leva obbligatoria ho voluto provarci da ufficiale di complemento: faccio il concorso AUC, vengo accettato e sono felicissimo. Frequento la scuola del Genio alla Cecchignola per cinque mesi e vengo destinato al Genio Ferrovieri a Torino: gli Alpini, per ora, sono lontani, ma essendo piemontese e avendo fatto il corso di ambientamento alpino l’idea mi resta in testa. Passo quasi tre anni coi Ferrovieri, con il vantaggio di essere a casa e poter studiare per il concorso in servizio permanente effettivo, molto selettivo per numero di candidati e posti. Studio, studio, studio e lo supero: finalmente vengo inviato al 2° Reggimento Genio Guastatori Alpini di Trento. Lì comincia la mia esperienza alpina da guastatore: Trento, Cortina, Bolzano, il Comando Truppe Alpine… storia bellissima, sogno realizzato. C’è anche un risvolto buffo: avevo una fidanzata in Toscana che diceva “va bene gli Alpini, ma io voglio fare l’avvocato e resto a Firenze”, e capisco che la nostra storia scricchiola. Un amico di famiglia mi procura un colloquio con un generale a Verona: io, con il mio inglese e un po’ di francese, butto lì che c’è un comando interforze a Firenze e mi offrirei volentieri. Il generale mi congeda con un “le farò sapere” e un mese dopo arriva la lettera: destinazione Sarajevo per sei mesi. Lo chiamo: “Ma io chiedevo Firenze”. Risposta: “Tenente, prima si fa esperienza: vada a Sarajevo e poi vediamo Firenze”. Durante la missione in Bosnia la fidanzata mi lascia. Resto sei mesi in un teatro complesso, a guerra quasi finita ma con scontri ancora in corso: esperienza interessantissima, psicologicamente dura. Tornato a Trento, nuova destinazione: Albania, tra Durazzo e Tirana, altri sei mesi, con la questione del Kosovo e il Passo Morini. Vivo in una base militare che in realtà era una colonia estiva costruita dagli italiani negli anni Trenta: guardando il Mediterraneo comincio a desiderare altro. Un anno in zone di guerra pesa. Avevo sempre avuto in testa i mercati dei capitali – Wall Street, la Borsa – per racconti di mio padre, rimasti però sogni. Mi compro un libricino rosso sugli strumenti finanziari – azioni, obbligazioni, derivati – e, tra addestramenti a 2.000 metri, sci, tiri con fucile e mitragliatrice, lancio di bomba a mano, dopo una paginetta crollavo dal sonno. In Bosnia e Albania stringo rapporti con ufficiali americani: l’inglese migliora, restiamo in contatto via e-mail e gli amici mi dicono: “Perché non provi a venire negli Stati Uniti?”. Chiedo due anni di aspettativa: il mio colonnello, vecchio alpino, cerca di ostacolarmi, tiene la domanda nel cassetto, sbotta con coloriti “tenente, lei deve stare qui”, ma alla fine è obbligato a inoltrarla e l’aspettativa arriva. Avevo fatto domanda per un master in economia alla Claremont Graduate University di Los Angeles: vengo accettato con grande sorpresa e gioia. A trent’anni riparto da studente in California: tra Balcani, rientri e pratiche, gli anni erano passati. L’inglese, che in missione sembrava decente, per studi avanzati non bastava: fatico molto, studio, cerco di sbarcare il lunario e penso a quanto fosse “comoda” la carriera nelle Forze Armate. Finiscono i due anni: il reggimento mi richiama. Passo una settimana senza dormire. Tutti dicono: “A Los Angeles? È scontato che resti”. In realtà non lo era: difficoltà economiche, lingua, un mondo totalmente nuovo. Decido il congedo, torno in Italia per le pratiche e rientro negli USA. Finito il master proseguo col PhD, anche per guadagnare tempo d’integrazione: intanto faccio stage, e lì si apre il varco verso la finanza.
Come si trasforma l’occasione in carriera negli Stati Uniti?
Trovo lavoro in una banca d’investimento in Orange County: inizia la carriera. A 34 anni il tempo è passato, ma dopo un paio d’anni riesco a essere assunto da Standard & Poor’s, che per me era un sogno quasi inarrivabile, noto perfino quando ero alpino. Prima Los Angeles, poi mi faccio trasferire a New York e lavoro vicino al Rockefeller Center. È il sogno di Wall Street che si avvera dopo averlo immaginato dal Passo del Tonale, dove c’era la base addestrativa del 2° Genio Guastatori.
Ascoltando la sua storia, sembra la prova che “non è mai troppo tardi”. È stato New York il punto di svolta?
Ti ringrazio. È stata una lotta contro i mulini a vento: cose che parevano impossibili sono diventate realtà con costanza, lavoro, desiderio e la capacità di continuare a sognare e crederci. Arrivare a New York ha cambiato le cose e mi ha dato una sicurezza che a lungo non avevo, anche per l’insicurezza sulla lingua, l’essere italiano, il modo in cui mi proponevo. Venivo da un mondo chiuso come l’esercito: mi mancavano riferimenti culturali, tante cose “di corporate America” che non sapevo. Proponendomi da “italiano tipico” lo stereotipo spuntava subito, ma la colpa era anche mia: se mi fossi posto diversamente, forse le cose sarebbero state diverse. New York è stato uno snodo vero.
Venticinque anni d’America: è cambiato il tessuto sociale e lo sguardo sugli italiani?
Sì, la società americana è cambiata moltissimo, e anch’io. All’inizio lo stereotipo era forte: italiano uguale pizza, Berlusconi, i soliti cliché. Oggi c’è più apertura e curiosità: quando dici di essere italiano spesso chiedono cosa significhi per te, qual è la tua esperienza, cosa fate, cosa mangiate. A New York o Los Angeles nessuno parte dando per scontata la mia provenienza: magari colgono un accento e chiedono “di dove sei?”, ma senza pregiudizi. A volte è piacevole non dover sempre raccontare da dove vieni o consegnarti a un’idea non veritiera. Venticinque anni fa mi dicevano “agli americani piacciono gli italiani”: allora non lo percepivo così. Non parlerei di razzismo, ma una certa diffidenza sì. Oggi vedo molta più apertura verso gli italiani.
Quando avviene il passaggio all’accademia, che oggi è il suo core business?
Paradossalmente devo ringraziare la crisi del 2008. Siamo a metà anni Duemila: tra il 2005 e il 2007 sono a New York, poi arrivano i venti di crisi. Nel frattempo mi sono sposato, abbiamo una figlia, mia moglie – americana – perde il lavoro e decidiamo di tornare in California: rientro in Orange County con la banca d’investimento con cui ero stato prima (oggi D.A. Davidson). L’attività cala e nel 2008, in piena crisi, colgo un’opportunità come direttore alla Marshall & Stevens, storica società di valutazioni aziendali di Los Angeles. Un mio analista che stava finendo il master alla Loyola Marymount University mi dice: “Ho parlato col vicedecano, sarebbero interessati a qualche lezione di valuation”. La valutazione era la mia specialità – Standard & Poor’s, D.A. Davidson, Marshall & Stevens – accetto l’invito, tengo seminari, poi mi offrono di insegnare regolarmente il corso MBA. Divento professore in visita con un contratto triennale. Insegnare mi entusiasma: uscivo da lezione elettrizzato. Mi riportava agli Alpini, quando alla base addestrativa insegnavo mine, campi minati, esplosivi, comunicazioni radio: ero già un istruttore, solo su materie molto diverse. Dopo tre anni alla Loyola passo come professore clinico alla Pepperdine University: campus meraviglioso sull’Oceano Pacifico, scuola prestigiosa. Ci resto otto anni insegnando mercati dei capitali, finanza aziendale, investimenti. “Docendo disco”: insegnando ho imparato moltissimo, la mia conoscenza è esplosa. Ho iniziato a dedicarmi alla ricerca: alcuni articoli sono stati pubblicati, ho continuato. La cosa che entusiasma di più gli studenti è che io abbia vissuto il mondo finanziario: porto sempre la vita reale in aula, e questo piace anche ai colleghi. È diventato il mio stile.
Alla luce di tutto questo, qual è oggi il sogno nel cassetto? Attento, perché poi succede…
Il mio desiderio è influenzare i miei studenti in modo positivo: entusiasmarli, farli credere che esista una possibilità diversa da quella che vivono. È anche il motivo per cui sono venuto a Nashville. A Pepperdine avevo studenti facoltosi, con rette elevate: non era raro vedere qualcuno arrivare in Maserati, Lamborghini o Ferrari. Oggi alla Tennessee State University – un’università pubblica – ho un’audience completamente diversa, in una realtà diversa dalla California. Trovo una soddisfazione enorme nel provare a trasmettere quel sogno che è stato il mio: toglierti da una realtà che pensi inestricabile. Dirlo mi emoziona, perché è davvero una grande soddisfazione.
C’è qualcosa che non è emerso e che vuole aggiungere?
Forse solo la nascita di Bardi Co, il broker-dealer. Il mio approccio alla finanza, anche in accademia, è che sia innanzitutto un mestiere: si studia e si impara, ma deve confrontarsi col mondo reale, altrimenti non è finanza. Quando ero professore in visita alla Loyola, due studenti – già in possesso di licenze FINRA – mi dissero: “Perché non creiamo un broker-dealer così teniamo attive le licenze?”. Sorrisi: creare un broker-dealer non è uno scherzo, la regolamentazione americana è complessa e crea barriere d’ingresso. Però, parlando con loro e con un paio di ex colleghi licenziati dopo la crisi del 2008, ci mettiamo in testa di farlo. Negli uffici della Loyola Marymount, in un anno e mezzo prepariamo tutto: carte, domande, requisiti. Arriva l’approvazione FINRA e nasce Bardi Co LLC. Dissi subito: “Io do tutto, ma il nome Bardi per me è essenziale: o si chiama Bardi o non partecipo”. Fu la condizione sine qua non. All’inizio mi pentivo quasi: la gente non capiva “Bardi Co”, dovevo sillabare B-A-R-D-I C-O e pensavo “così non faremo mai affari”. Stranamente, dopo un po’, nessuno ha più avuto difficoltà: oggi il marchio è registrato nel settore a livello federale negli Stati Uniti. “Bardi” viene dalla tradizione italiana: la Compagnia dei Bardi, la prima grande merchant bank fiorentina del Trecento. Ho studiato Scienze Politiche a Firenze, la mia ragazza era di Firenze: quel legame è rimasto. E c’è un dettaglio che chiude il cerchio: i Bardi contribuirono al finanziamento del viaggio di Cristoforo Colombo verso le Americhe. Per me, che ho attraversato l’Atlantico per cambiare vita, non poteva esserci simbolo migliore.