L’imprenditore e vicepresidente della Sbarro Health Research Organization, Giancarlo Arra, è stato recentemente nominato nel Consiglio di Amministrazione della Sons and Daughters of Italy, la più grande fondazione che rappresenta gli italoamericani negli Stati Uniti. Una nomina inaspettata, che Arra vive come un’opportunità per rafforzare i rapporti tra Italia e USA, creando un ponte scientifico, filantropico e imprenditoriale, con un’attenzione particolare ai giovani del Sud Italia. In questa intervista ripercorriamo con lui il valore di questa investitura, il suo impegno insieme ad Antonio Giordano e il ruolo delle nuove generazioni nel rinnovare l’immagine del nostro Paese agli occhi della comunità italoamericana.
Qual è stata la sua prima impressione quando ha saputo della nomina nel Board della Sons and Daughters of Italy?
Per me è stata una sorpresa. Essere scelto in mezzo a tanti imprenditori, a tante persone che lavorano tra l’Italia e gli Stati Uniti, è una grande soddisfazione. Una nomina inaspettata, davvero.
Che realtà rappresenta oggi la Sons and Daughters of Italy negli Stati Uniti?
È una fondazione che rappresenta tutti gli italoamericani negli Stati Uniti: parliamo di un’organizzazione che rappresenta 26 milioni di italoamericani. Entrarvi non è solo un riconoscimento personale, ma un impegno: contribuire alla crescita della nostra comunità, promuovere le eccellenze italiane e valorizzare le nuove generazioni. Per questo ringrazio il direttivo della fondazione.
La nomina è arrivata per il suo impegno nella ricerca come vicepresidente della Sbarro Health Research Organization.
Esatto, la SHRO è un’organizzazione che finanzia la ricerca scientifica e che, insieme al professor Giordano, dà la possibilità a tanti ricercatori — italoamericani e non — di lavorare in un ambiente competitivo: conta oltre 60 brevetti e tre farmaci.
Che contributo pensa di poter portare alla fondazione Sons and Daughters of Italy?
Il contributo principale è quello di aiutare i rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti. Non solo nell’ambito scientifico, ma anche in quello filantropico e imprenditoriale, per creare un ponte soprattutto per i giovani del Sud. Il mio ruolo sarà proprio quello di creare connessioni tra i due Paesi in vari ambiti. Nel Mezzogiorno in particolare c’è un enorme potenziale, dalla creatività alla cultura, dalle idee alle competenze. Ora sento l’onere e il dovere di dimostrare che il modello Sbarro Healt Research Organization è replicabile anche al Sud, investendo risorse e sentimenti e creando nuovi strumenti per i talenti.
Il suo impegno e quello di Antonio Giordano sono da sempre rivolti in modo particolare al Sud Italia. Cosa può dare Sons of Italy per il Sud?
Sì, abbiamo l’impegno comune di dare voce al Sud. Vogliamo far capire che lì c’è una fucina di talenti straordinaria, che però devono potersi far conoscere anche in un ambiente competitivo e meritocratico come quello americano.
La fondazione può dare un supporto potenziale enorme. Lavoro da anni tra Napoli, Philadelphia e altre capitali scientifiche internazionali e posso testimoniare che la visione americana è basata su un principio chiaro: creare un territorio su cui investire. L’Italia è più forte quando il Mezzogiorno cresce. E le opportunità che l’America mi ha dato attraverso SHRO dimostrano una cosa: quando si creano le condizioni giuste, i risultati arrivano.
E cosa può dare il Mezzogiorno agli Stati Uniti?
Il Sud non deve soltanto ricevere: può esportare idee, modelli innovativi, creatività e una forza culturale che gli americani apprezzano profondamente. Posso testimoniare che all’estero l’interesse verso il nostro territorio sta crescendo in maniera esponenziale. La mia visione è che il Mezzogiorno possa diventare una piattaforma di innovazione, un hub capace di connettere l’Europa con il Nord America. I nostri giovani sono un valore aggiunto enorme. Io investo su di loro e sono convinto che potranno contribuire al successo di questo obiettivo
Da cosa nasce l’esigenza di far conoscere meglio l’Italia agli italoamericani di oggi?
Molti italoamericani continuano a vedere l’Italia come un Paese di quarant’anni fa, quando invece oggi è estremamente competitivo. Il mio ruolo sarà aiutare le nuove generazioni a farsi conoscere per quello che stanno costruendo.
In questo senso, organizzazioni come la SHRO e figure come lei dimostrano che l’Italia produce eccellenze riconosciute anche negli Stati Uniti.
L’idea è quella di dare voce a ciò che abbiamo fatto con la Sbarro, ma ampliandolo all’internazionalizzazione in tanti altri ambiti: filantropico, imprenditoriale e non solo. È questo il concetto.
Questo ponte tra Italia e USA può servire anche a far tornare i talenti, dopo un’esperienza formativa in America?
Assolutamente sì. Molti dei nostri ricercatori, con la creazione di Sbarro Italia, hanno potuto fare un’esperienza lavorativa negli Stati Uniti e poi rientrare in Italia, potendo continuare il percorso iniziato in America. Hanno evitato quello shock che spesso si prova quando si torna senza un supporto. Abbiamo cercato di portare in Italia il nostro modello americano.
Sul piano professionale e umano qual è il più grande insegnamento che gli italiani devono prendere dagli USA?
L’America può insegnare la meritocrazia, che in Italia purtroppo ancora non abbiamo pienamente. E può offrire opportunità culturali e imprenditoriali enormi. La formazione americana è ancora oggi probabilmente la migliore al mondo.
E qual è la caratteristica principale che gli americani possono apprendere dagli italiani?
Noi italiani abbiamo una forza interiore importante. Non abbiamo le stesse strutture e lo stesso “percorso guidato” che esiste negli Stati Uniti, e questo ci dà una grande inventiva, che è ciò che davvero ci contraddistingue.
Ha definito la nomina nel CdA di Sons of Italy un “punto di partenza”. In che senso?
Ora che sono stato nominato, è il momento di costruire una realtà solida per italiani e americani. Dobbiamo creare un matching che sia utile a entrambi i lati del ponte. Perché è vero che molti italiani vogliono andare negli Stati Uniti, ma è altrettanto vero che l’Italia ha una forza attrattiva turistica e culturale enorme. Bisogna fare un lavoro che funzioni per chi vuole lavorare all’estero, ma anche per il territorio italiano.
E questa prospettiva riguarda quindi anche gli americani che guardano al nostro Paese?
Assolutamente sì. Dobbiamo portare benefici non solo alle persone, ma ai territori. Deve essere un do ut des perfetto. Dobbiamo lavorare per questo.




