Di persona Renée Zellweger non assomiglia affatto a Bridget Jones: è minuta, sottile, quasi esile, certamente non ha bisogno dei famosi mutandoni contenitivi che indossava nel primo film. Col personaggio che l’ha resa iconica, tuttavia, condivide quel senso dell’ironia quasi british (lei è texana), l’empatia e il sorriso sincero. «Sì, mi hanno chiesto ancora di ingrassare per riprendere il ruolo» mi racconta. «Ma non è stato troppo impegnativo: ho smesso di andare in palestra e ho preso qualche chilo».
L’ultimo capitolo della saga dedicata alla single pasticciona simbolo dei disastri sentimentali di tutte noi, Bridget Jones: Mad About the Boy, ha debuttato lo scorso San Valentino sulla piattaforma Peacock. È il quarto film, e fa seguito ai tre usciti al cinema tra il 2001 e il 2016 che ci hanno fatto innamorare dell’antieroina creata dalla penna di Helen Fielding.
Bridget è una producer londinese specializzata in gaffes che si divide sentimentalmente tra un capo inguaribilmente donnaiolo (lui è Hugh Grant) e un avvocato della cooperazione internazionale tutto di un pezzo (Colin Firth). Si trova continuamente nelle situazioni più assurde e imbarazzanti, come quando (nel primo film) si presenta a un garden party vestita da coniglietta di Playboy per scoprire che non è più in maschera. Tuttavia, riesce sempre a trovare la sua quadra. E alla fine ce la fa anche a trovare l’amore, e si sposa con Firth.
Ora Bridget ha raggiunto la sudata serenità?
Macché: in Mad About the Boy la ritroviamo vedova da quattro anni (suo marito è morto in un attentato in Darfur, anche se Colin Firth appare qua e là durante il film come evocazione). Ha due bambini piccoli che accompagna a scuola in pigiama, ed è nuovamente single e depressa, anche se è rimasta amica dell’ex capo (sempre interpretato da Grant) che all’occorrenza le fa da baby-sitter alla prole.
Pressata dalle amiche e dalla sua ginecologa – Emma Thompson, in un cammeo in cui elargisce una perla di saggezza da fare nostra: quella della maschera d’ossigeno come metafora della vita, che in aereo va indossata prima di pensare a soccorrere gli altri, figli compresi – cerca di elaborare il lutto. E finirà di nuovo per dividersi tra un giovane guardaparco “toy boy” dagli addominali scolpiti (interpretato da Leo Woodall) e il più maturo insegnante di scienze di suo figlio (Chiwetel Ejiofor, peraltro anche lui niente male a torso nudo).
«Non potevamo raccontare la stessa storia, allo stesso modo, dopo tanti anni: Bridget doveva essere riconoscibile, ma anche diversa», mi spiega Renée. Per la nostra chiacchierata ci siamo incontrate a Roma, in un magnifico hotel affacciato sugli Spanish Steps. Lei indossa un abito scollato che mette in evidenza la linea delicata del collo e delle braccia, sorride ed è di ottimo umore.

Sono passati venticinque anni dal primo film, e lei torna a incarnare Bridget Jones. Come si sente?
«In realtà ho sempre avuto la sensazione che Bridget non si sia mai veramente allontanata, perché parlo di lei quasi ogni giorno, quando sono in giro. Le persone che incontro vogliono sempre condividere con me qualche esperienza alla “Bridget Jones”, ed è un dono poter parlare e ridere con gente che magari non hai mai visto, ma con la quale hai qualcosa in comune».
Qual è, secondo lei, il segreto del successo di questo personaggio?
«Credo stia nel fatto che Bridget affronta la vita con ottimismo e con gioia, anche se è sempre in mezzo al caos… un caos che però è molto simile al calore, giusto? Lei è sempre gentile, perseverante, positiva e in qualche modo comunica agli spettatori che anche loro possono esserlo. Le sue esperienze sono universalmente riconoscibili, e diventano una fonte di ispirazione per tutti. Perché non importa quanto sia difficile, e non importa quanto lei si senta imperfetta, o quanto sia grande il divario che percepisce tra sé stessa e il paradigma che la nostra società ci impone in fatto di bellezza o di successo: lei non si arrende mai, e alla fine trionfa. E io penso che in questo modo ci faccia sentire compresi e ci dia speranza».
Ha aiutato le donne a fare pace con le proprie imperfezioni?
«Penso che sia diventata un faro sull’accettazione di sé stessi, e che abbia incoraggiato ogni persona, non solo le donne, a riconoscere di essere bella a prescindere. Tutti noi troviamo sempre qualcosa per cui colpevolizzarci, anche quando non c’è davvero nulla di sbagliato. Bridget invece va oltre i canoni della società: io stessa mi sono immediatamente identificata con lei, e anche per me è fonte di ispirazione».
Quanto c’è di lei, personalmente, in Bridget?
«È difficile rispondere, come ho già detto sono molto legata al personaggio, del resto mi ha accompagnato per metà della mia vita. All’inizio per interpretarla ho fatto alcune scelte, ma non riesco a dire se siano state completamente volute o accidentali. Tuttavia, posso parlare delle cose che sento avere in comune con lei. Per esempio: capisco il suo complicato rapporto col tempo che scorre, e la comprendo quando cerca di fare del suo meglio e invece si ritrova in circostanze assurde nei momenti meno opportuni. Mi piace molto la sua ironia e anch’io, come lei, sono un’inguaribile romantica».

In questo ultimo capitolo Bridget ha una storia con un ragazzo parecchio più giovane, secondo lei si tratta ancora di un tabù per le donne?
«Non credo, e poi le relazioni tra persone di età diverse sono più o meno sempre esistite. Certi stereotipi stanno scomparendo, e soprattutto noi non dovremmo giudicare le relazioni degli altri, ma piuttosto essere felici per qualsiasi persona che riesca a trovare l’amore. Fortunatamente oggi la nostra società sta cominciando a capire, e le relazioni amorose non possono più essere incasellate in parametri tanto rigidi».
Personalmente, nel film ho trovato una vena di malinconia: i protagonisti che venticinque anni fa mordevano la vita sono stati messi alla prova dal tempo, e anche se conservano il loro humor sono comunque invecchiati, soffrono. Lei che cosa ne pensa?
«Io credo che l’essenza di Bridget Jones stia nel suo ottimismo, nel suo calore, la sua umanità, l’allegria. Tuttavia, nessuno di noi arriva a questa età senza sperimentare il dolore o la perdita delle persone che ama, e in qualche modo questo ci rende diversi da come eravamo. Più maturi, forse un po’ più malinconici. Però cerchiamo ancora la speranza, e questa è una delle cose che possiamo certamente ritrovare nel film».