Barbara Torasso racconta LuisaViaRoma tra moda e community

Nel cuore di NoHo, Barbara Torasso fa parte del team che ha aperto le porte di uno spazio che è prima di tutto un invito all’incontro. Non solo un negozio, ma l’inizio di un racconto più grande, fatto di prossimità, sguardi, chiacchiere e quella presenza reale che solo un luogo fisico può offrire

«Allora, innanzitutto, qua siamo all’uno di Bond Street» dice Barbara Torasso, indicando con naturalezza il palazzo. È un edificio imponente, ma non opulento: ha quella sobrietà robusta tipica delle strutture industriali newyorkesi degli anni ruggenti. Eppure, qui dentro oggi si vendono abiti e accessori di moda, non pezzi di metallo.

Barbara ci tiene a raccontare la storia del quartiere, e in effetti sembra averne fatto il suo punto di partenza: «Questa zona è chiamata NoHo, North of Houston Street, per distinguerla da SoHo. Ma in realtà è sempre stata una zona di manifatture, poi negli anni Settanta è diventata un quartiere di artisti». Non lo dice con nostalgia, ma con la consapevolezza di chi ha visto New York trasformarsi, e adesso sta contribuendo a una nuova trasformazione.

L’idea di LuisaViaRoma di aprire uno store fisico nasce, paradossalmente, dall’esplosione del digitale. «Dovevamo dimostrare che esistiamo davvero»: Barbara lo ripete come se fosse un mantra. «Gli Stati Uniti hanno sorpassato l’Italia come utenti online, ma una delle ricerche più frequenti su Google era Is LuisaViaRoma a real store?. Quindi era importante esserci. Fisicamente». 

E così è nato questo spazio di 1.200 metri quadrati, progettato dall’architetto fiorentino Claudio Nardi, realizzato con materiali italiani e messo in piedi, letteralmente, da artigiani arrivati da Firenze. «Questo immobile in particolare era la sede del The First Wives Club, il film del 1996 con Diane Keaton e Goldie Hawn. Era un club di ex mogli che si alleavano contro i mariti risposati. Un film molto divertente». 

Il risultato è uno spazio ampio e luminoso, dove la progettazione cerca di far dialogare estetica e funzionalità. Ogni angolo è pensato per suggerire un linguaggio visivo coerente con l’identità del marchio. La selezione dei brand è raffinata e volutamente non ovvia. «Non troverai Gucci o Prada. Ma brand intellettuali, un po’ più di ricerca, come Proenza Schouler o Comme des Garçons. Vogliamo dare strumenti, non diktat».

Camminando tra le vetrine si nota subito la scelta curata degli oggetti esposti. «Di solito qui davanti mettiamo i pezzi più importanti della settimana. In questo momento c’è una selezione di Phoebe Philo, l’ex designer di Céline. Una vera icona. Solo noi e Bergdorf Goodman ce l’abbiamo a New York».

Il negozio non è tutto made in Italy, anzi: «Circa il 30% dei brand sono italiani. Il resto è un mix molto selezionato, soprattutto newyorkese. Abbiamo, ad esempio, Eera e Eva Fehren. Tutto fine jewelry». E poi una selezione di abiti, scarpe, borse, accessori. «Il 70%, anzi l’80% dell’offerta è per la donna. È lei la nostra cliente tipo: newyorkese, appassionata, consapevole».

Un dettaglio fa la differenza: i look sono composti accostando brand diversi. «Vogliamo promuovere il punto di vista estetico di LuisaViaRoma. Ti suggeriamo noi come vestirti».

Poi c’è il corner vintage, in collaborazione con Vestiaire Collective. Un’idea che promuove la circolarità. «Quando è arrivata Phoebe Philo, avevamo qui una selezione dei suoi capi vintage Celine che dialogava con la nuova collezione».

La parte più sorprendente arriva però nel piano interrato. «Qui sotto c’è la nostra zona VIP. È dove portiamo le celebrities quando vengono da noi a fare shopping privato». Ma il piano interrato non è solo shopping. È anche cultura. Arte. Qui LuisaViaRoma organizza mostre, installazioni, eventi. «Abbiamo lavorato con Planned Parenthood per un’asta benefica. C’erano 20 opere di artisti newyorkesi, compreso un Basquiat. Il negozio è stato una galleria per un mese». Un esperimento che ha temporaneamente trasformato lo spazio in un luogo di incontro tra arte e pubblico.

Ed è proprio quella parola che torna spesso. Community.

«Organizziamo due o quattro eventi al mese, di ogni tipo: un cocktail per la presentazione di un libro, una festa con DJ, un evento di beneficenza. Non sono legati alla vendita. Sono per creare relazioni. Per radicarci nel quartiere».

Un lavoro di presenza costante, che ha trovato il suo punto di svolta nel lancio del negozio, con uno dei piani di comunicazione più articolati che Barbara abbia mai coordinato. «Dovevamo parlare a tre pubblici diversi: i clienti online che già ci conoscevano, quelli locali che non ci avevano mai sentiti nominare, e il quartiere stesso. Quindi abbiamo lavorato su tre piani: digital, stampa e territorio».

C’erano partnership con il New York Times, con il New York Magazine, e con celebrities locali che sono venute a fare shopping e a postare. Ma soprattutto, c’era il quartiere. «Siamo andati a bussare porta a porta dai negozi della zona. Ci siamo presentati, abbiamo invitato tutti. È così che si costruisce una presenza».

E oggi, se si rompe una luce o suona un allarme nel cuore della notte, c’è qualcuno da chiamare. E c’è sempre un tavolo riservato nei ristoranti del quartiere per le loro clienti. Forse è questa la versione americana di un buon vicinato italiano.

Quando ci sediamo, l’intervista cambia passo. Diventa più personale. Le chiedo del suo ruolo. «Io ho aiutato a fondare LVR USA Corp, la sussidiaria americana di LuisaViaRoma Spa. Seguo le operations e il marketing». Prima ha lavorato per Adidas, poi in una fiera di moda newyorkese chiamata Capsule e poi ha aperto la filiale americana di Basic Net. E il legame con LuisaViaRoma è cresciuto nel tempo, come quelli che contano davvero.

E chi è Barbara? «Sono una bomba di energia». Ride. Ma lo pensa sul serio. «Sono curiosa, vado dappertutto, parlo con tutti. E sono innamorata di New York. L’ho detto anche a mio marito: se ti viene in mente di trasferirti, io resto qui».

Dopo un periodo a Boston, dal 2014 è a New York. «Lui è cresciuto fuori città, a Long Island, e da ragazzo prendeva il treno per passare i pomeriggi in città. Una storia da film».

Quando le chiedo le differenze tra Italia e Stati Uniti nel lavoro, Barbara non fa giri di parole: «L’Italia è inefficiente. Troppa burocrazia, troppi passaggi. Ma ha un’umanità che qui non trovi. Le aziende italiane diventano una famiglia. Negli Stati Uniti, il lavoro è un mezzo. In Italia, è un legame». La differenza è tutta lì: tra un pranzo che decide tutto e una presentazione in PowerPoint. 

La conversazione si apre a temi più larghi. La narrativa americana, Cristoforo Colombo. 

Poi c’è un episodio piccolo ma eloquente. «Mi è capitato di dover fare un casting per un film. Non l’avevo mai fatto. Ma qui a New York funziona così: se c’è una cosa da fare, la impari. E la fai». Ridiamo. Ma è vero. È una delle definizioni più semplici e concrete dello spirito della città.

Nel frattempo, Barbara studia. «Sto leggendo tutti i libri di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. È il mio prossimo step. Non so ancora in che forma, ma sarà nel mondo del cibo». Frequenta i mercati contadini, parla con chef e produttori, si prende il tempo per capire. «Sto studiando. Quando capirò dove portare questa passione, mi muoverò». È un’attitudine che sembra l’opposto della fretta newyorkese, ma forse è solo il suo modo personale di stare al passo.

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Elide Vincenti

Laureata con lode in Letteratura Comparata e Arti dello Spettacolo presso la Sapienza di Roma, ha lavorato come Project Manager presso Italy-America Chamber of Commerce Southeast di Miami. Vive a New York, dove frequenta il corso di Master in Critical Journalism e Creative Publishing presso l’Università di New York, Parsons - The New School.

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