Andrea Prencipe è uno studioso di organizzazione, ed ex-rettore dell’Università Luiss – Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli di Roma. È noto per i suoi studi sull’innovazione, la trasformazione organizzativa e i processi di apprendimento nelle imprese e nelle università. In questa intervista, Prencipe riflette sulla necessità di una “grammatica dell’innovazione”, ispirata alle Lezioni americane di Italo Calvino, e sulle sfide che l’università e l’impresa devono affrontare per educare, trasformarsi e innovare.
Professore, lei propone una “grammatica dell’innovazione” ispirata alle Lezioni americane di Italo Calvino. Perché proprio Calvino? E in che modo la sua visione letteraria può aiutarci a comprendere e gestire il cambiamento tecnologico e organizzativo?
Perché Calvino è innovazione. È stato un grande innovatore: sperimentava metodi, stili, linguaggi e approcci. Si considerava la pecora nera della sua famiglia: perché era composta solo da scienziati! Questo lo ha esposto fin da giovane alle scienze, educandolo naturalmente al pensiero interdisciplinare. Egli leggeva biologia, informatica – che ai suoi tempi era agli albori – e pare che acquistasse ogni mese Scientific American per trarne ispirazione, quello che oggi chiameremmo un “prompt”.
Nel nostro libro proponiamo il “metodo Calvino”. Quando affrontava un concetto, Calvino lo faceva sempre esplorando anche il suo opposto: la leggerezza, ad esempio, viene analizzata insieme alla pesantezza. Anche l’ultima lezione, quella non scritta ma lasciata in frammenti, ruota intorno alla coerenza. Calvino cita Bartleby lo scrivano di Melville, dove il protagonista muore proprio di un’eccessiva coerenza. È un invito, direi, a essere coerentemente incoerenti, per vivere e reinventarsi.
Nel libro si parla di innovazione come di una tensione tra opposti: distruzione e creazione, passato e futuro, esattezza e immaginazione. Come si traduce questa dialettica all’interno di un’azienda o di un’università?
Il libro sottolinea l’importanza della consapevolezza: l’innovazione emerge tra e vive di tensioni. Calvino direbbe che la tecnologia è rapida, mentre la scienza è lenta. E noi esseri umani lo siamo ancora di più. Amiamo la comfort zone, le routine, lo status quo; siamo naturalmente resistenti ai cambiamenti, alle innovazioni.
Tuttavia, le innovazioni, per quanto veloci, devono essere adottate da noi umani per poter avere un impatto sociale ed economico. Quindi il processo di adozione delle innovazioni è fondamentale: l’innovazione, infatti, non è solo un fatto tecnologico, ma un fenomeno di cambiamento socio-antropologico.
Si parlava dell’importanza della pedagogia in questo processo. Quali sono, secondo lei, gli ostacoli oggi presenti nel sistema aziendale e universitario?
Gli ostacoli derivano spesso dal radicamento delle regole, delle istituzioni, delle pratiche che appartengono a un determinato momento storico. Le regole sono fondamentali, ma l’innovazione richiede anche nuove regole. L’innovatore, in fondo, è colui che crea nuove regole.
Thomas Kuhn parlava di “innovazione normale” all’interno di un paradigma scientifico, ma l’innovazione radicale crea un nuovo paradigma. Pensiamo a chi ha creato Airbnb: ha ridefinito completamente l’hotellerie senza possedere un solo albergo. È un esempio di “distruzione creatrice”, come direbbe Schumpeter.
Chi legittima queste nuove regole?
Il mercato e le istituzioni. Sono loro a riconoscerle e a sancirne la validità.
Ma non c’è il rischio che siano proprio mercato e istituzioni a voler mantenere le vecchie regole?
Sì, il rischio esiste. E in parte è anche naturale: mantenere lo status quo significa anche tutelare ciò che ci rende umani. Ma dobbiamo evolverci. Il significato stesso dell’essere sapiens cambia nel tempo. Per questo è importante captare la novità senza snaturarci, mantenendo – come avrebbe detto Calvino – i nostri tratti “gelosamente umani”.
Nel contesto universitario, significa educare le ragazze e i ragazzi al pensiero critico, alla capacità di discernere. Da un lato attraverso la sperimentazione delle tecnologie – come l’intelligenza artificiale – dall’altro tornando agli studi umanistici, che rappresentano l’essenza dell’umanità.
Accademia e azienda sono spesso percepite come mondi opposti. È davvero così? E dove si toccano o si scontrano?
Sono mondi diversi, certo. L’azienda persegue il profitto – che deve però essere sempre più socializzato. L’università ha il compito di educare. Ma devono collaborare, nel rispetto dei diversi ambiti di responsabilità.
Oggi non è più solo l’università a produrre conoscenza: lo fanno anche le imprese, le istituzioni. Per questo è fondamentale trovare un terreno comune, anche se in continua evoluzione. L’università deve educare a imparare e disimparare, preparare ragazze e ragazzi a reinventarsi. Le imprese, dal canto loro, devono essere rapide e pronte sul mercato. L’università può quindi concentrarsi su conoscenze; l’impresa, su competenze. Due dimensioni che si completano.