Le nuove tariffe commerciali introdotte dal Presidente Donald Trump stanno rapidamente disegnando un nuovo scenario nei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Asia, con conseguenze che potrebbero cambiare il ruolo di Washington sul piano internazionale. I paesi asiatici restano tra i principali obiettivi di questa strategia: non solo la Cina, ma anche altri giganti dell’export come Giappone, Corea del Sud e Taiwan, che figurano tra gli Stati con i surplus commerciali più alti rispetto agli Stati Uniti. Nel mirino sono finiti i prodotti chiave che Trump punta a tassare: dalle auto giapponesi e sudcoreane ai semiconduttori taiwanesi, fino ai farmaci indiani.
Le mosse di Trump riflettono la volontà di ridurre un disavanzo commerciale che lo scorso anno ha sfiorato i 1.200 miliardi di dollari. Da quando si è insediato, il Presidente ha introdotto un dazio del 10% sulle importazioni cinesi e si prepara a ulteriori tasse fino al 25% o più su automobili, acciaio e alluminio, semiconduttori, prodotti farmaceutici e legname. Ha inoltre promesso «dazi reciproci» che potrebbero colpire i singoli paesi in base a presunte violazioni, come la manipolazione valutaria o sussidi interni alle imprese. Secondo diversi economisti, questa escalation rischia di provocare forti contraccolpi anche sull’occupazione e sulla crescita economica globale.
Il timore, sottolineano diversi analisti, è che si possa innescare un effetto domino di protezionismo: ogni Paese, messo di fronte alle barriere americane, potrebbe a sua volta decidere di alzare i propri dazi. «C’è il rischio che gli Stati Uniti sopravvalutino davvero la propria influenza» ha dichiarato Simon Evenett, professore presso la IMD Business School in Svizzera. «Il mercato statunitense rimane il più grande al mondo, ma in termini percentuali è più ridotto di quanto fosse 20 anni fa». Le recenti misure di Trump hanno già generato incertezza nei mercati e messo sotto pressione i governi asiatici, che stanno valutando strategie per proteggere i propri esportatori.
In Asia, infatti, molte economie sono profondamente integrate nelle catene di fornitura globali e dipendono dalle esportazioni verso gli Stati Uniti. Al tempo stesso, alcune di esse hanno progressivamente accolto investimenti cinesi, vedendo le proprie fabbriche diventare tappe di un complesso flusso di merci diretto in parte anche verso il mercato americano. Soprattutto nel Sud-Est asiatico, i governi hanno già sperimentato l’effetto di una lunga guerra commerciale tra Washington e Pechino: l’ingresso massiccio di prodotti cinesi ha messo fuori gioco migliaia di imprese locali in Thailandia e Indonesia, spingendo le autorità ad adottare contromisure.
Non mancano, però, Paesi che intravedono possibili vantaggi. In Vietnam, per esempio, alcune aziende locali hanno beneficiato di maggiori investimenti cinesi e la produzione di componenti a basso costo potrebbe favorire la competitività. Diverso è il discorso per quei casi in cui i beni cinesi vengono semplicemente etichettati altrove per aggirare i dazi statunitensi. Secondo diversi esperti, l’impatto sull’economia di un’eventuale “porta sul retro” potrebbe crescere, ma molto dipenderà dall’entità dei controlli e dagli accordi bilaterali che gli Stati Uniti riusciranno a negoziare.
Nel frattempo, si delineano alcune nuove tendenze nei flussi commerciali. Una recente zona economica tra Singapore e Malesia sta attraendo aziende statunitensi e cinesi, alla ricerca di alternative produttive fuori dalla Cina. In Corea del Sud, il governo ha deciso di destinare più di 249 miliardi di dollari al finanziamento del commercio per sostenere gli esportatori colpiti dai dazi. L’India, invece, ha scelto di tagliare i dazi sul bourbon e potrebbe aumentare le importazioni di beni agricoli statunitensi, con l’obiettivo di negoziare un terreno più favorevole e scongiurare possibili tensioni.
Albert Park, capo economista della Banca asiatica di sviluppo a Manila, ha sottolineato come «nell’area asiatica stiamo assistendo a catene di approvvigionamento sempre più regionali», un fenomeno che potrebbe funzionare da scudo contro eventuali barriere esterne. In ogni caso, se i paesi asiatici riusciranno a intensificare i commerci tra loro, la dipendenza dal mercato americano potrebbe ridursi ulteriormente.