È iniziata la grande sfida legale tra il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e Google. Se l’antitrust è stata per decenni la spada affilata contro i monopoli dell’acciaio, del petrolio e della finanza, oggi il nemico da abbattere è fatto di bit e codice, impalpabile ma onnipresente. E il bersaglio questa volta è la macchina pubblicitaria di Google: un sistema che, secondo i critici, non lascia spazio a nessuno.
Il processo che si è aperto lunedì in un tribunale federale in Virginia potrebbe riscrivere il futuro di Big Tech, ridisegnando le regole del gioco per chi, come Google, ha trasformato la rete in un’enorme piazza pubblicitaria. Il nodo cruciale riguarda Google Ad Manager, una piattaforma che gestisce in tempo reale la vendita di spazi pubblicitari ogni volta che apriamo una pagina web. Per il governo, questo meccanismo è l’arma segreta che ha permesso a Google di diventare l’unico venditore, banditore e, alla fine, incassatore del globo.
Sulla carta, la battaglia sembra essenziale: la giustizia americana accusa Google di abuso di potere e di avere soffocato la concorrenza, creando un monopolio di fatto nel settore della pubblicità online. In particolare, l’acquisizione di DoubleClick nel 2008 è considerata il colpo di grazia per i concorrenti. Questo software, ormai integrato nell’universo Google, permette all’azienda di controllare l’87% del mercato americano nella vendita di spazi pubblicitari per editori. Una percentuale che, a sentire i procuratori, sarebbe difficile da giustificare senza ricorrere ad una segmentazione.
Il rischio per Google è, infatti, proprio quello di dover separare le sue attività, cedendo pezzi fondamentali come DoubleClick. Una sorta di smembramento forzato che potrebbe minare le fondamenta di un modello di business basato sulla raccolta e gestione della pubblicità. Sarebbe come togliere al colosso californiano il suo serbatoio di benzina, la principale fonte di guadagno che tiene in piedi non solo le sue attività, ma gran parte dell’internet gratuito come lo conosciamo. Siti di notizie, blog, video, social network: tutto è sostenuto, direttamente o indirettamente, da quel flusso pubblicitario che Google ha incanalato a proprio favore.
Eppure, nonostante i numeri da capogiro, Google si difende con un certo pragmatismo. Secondo l’azienda, il suo sistema funziona semplicemente perché è il migliore. Migliaia di piccole e medie imprese scelgono Google per la sua efficienza, e non perché sono costrette a farlo. Il mercato, dice Google, è competitivo e dinamico, con molte altre piattaforme emergenti, dai social network alle app mobile, che offrono spazi pubblicitari fuori dal suo controllo.
Ma se la pubblicità è la linfa vitale del web, come sostiene l’azienda, il rischio è che, alla fine, la lotta contro Google possa danneggiare più di quanto non riesca a salvare. Editor e giornali, già strangolati dalla crisi del settore, potrebbero trovare ancora più difficile far quadrare i conti. E il costo, come sempre, potrebbe ricadere sui consumatori, che vedrebbero crescere i prezzi dei prodotti pubblicizzati o, peggio ancora, la progressiva sparizione dell’informazione gratuita.
La verità è che, dietro le accuse di monopolio, si nasconde una battaglia epocale per il controllo del futuro. Chi deciderà cosa vediamo, cosa compriamo e come ci informiamo, non sarà più solo una questione tecnica o commerciale, ma politica. Se l’antitrust riuscirà a vincere questa sfida, non si limiterà a spezzare un colosso. Rimetterà in discussione l’idea stessa di internet come lo abbiamo conosciuto finora. E, forse, ci costringerà a ripensare il prezzo della libertà digitale.