Il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato che smetterà di produrre le monete da un centesimo, comunemente note come penny, una volta esaurite le scorte attuali dei materiali utilizzati per coniarle. La decisione arriva dopo anni di discussioni e proposte bipartisan: già Barack Obama ne aveva messo in dubbio l’utilità durante il suo mandato, e Donald Trump ne aveva chiesto l’abolizione. Il motivo principale è economico: ogni penny costa al governo 3,69 centesimi per essere prodotto, una spesa che negli anni è diventata insostenibile. Lo stop dovrebbe far risparmiare circa 56 milioni di dollari all’anno.
I penny sono composti per il 97,5% da zinco e per il 2,5% da bronzo, due materiali che hanno registrato aumenti significativi di prezzo negli ultimi dieci anni. Nel 2015 coniare una moneta da un centesimo costava “solo” 1,3 centesimi. Nonostante il calo della produzione — dai 9,36 miliardi del 2015 ai 3,22 miliardi del 2023 — negli Stati Uniti circolano ancora 114 miliardi di penny. Il loro utilizzo si è però ridotto, complice l’inflazione e la diffusione dei pagamenti elettronici. Il dipartimento non ha chiarito se i commercianti dovranno arrotondare i prezzi al nickel, la moneta da cinque centesimi, che però costa anch’essa più di quanto vale: 13,78 centesimi per ogni pezzo prodotto.
Come accaduto già in Italia e in altri paesi europei, dove le monete da uno e due centesimi sono state abbandonate (in Italia dal 2018), anche negli Stati Uniti il valore simbolico del penny sembra ormai superato. Un tempo era utile per acquistare beni a basso prezzo, ma oggi serve solo ad arrotondare i conti, e spesso viene messo da parte anziché essere speso. Questo comportamento, paradossalmente, ne aumenta la domanda sul mercato, costringendo il governo a stamparne di nuove. Ora però, anche per il penny americano, sembra arrivata la fine.