L’amministrazione Trump ha annunciato l’introduzione di nuovi dazi fino a 1,5 milioni di dollari sulle navi costruite in Cina che attraccano nei porti statunitensi. Il provvedimento, che rientra nella strategia di riduzione della dipendenza economica da Pechino, colpirebbe anche le compagnie di navigazione non cinesi che operano con flotte contenenti imbarcazioni di fabbricazione cinese.
Per capire la portata della misura, basti pensare che quasi l’80% del commercio estero americano avviene via mare, mentre meno del 2% del traffico è gestito da navi battenti bandiera statunitense. Il piano, annunciato dall’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, è stato presentato come un incentivo alla rinascita dell’industria navale nazionale, ormai quasi inattiva da decenni. L’obiettivo è chiaro: ridurre l’influenza della Cina nella logistica globale e spingere le aziende americane a investire in flotte domestiche.
L’iniziativa, però, solleva dubbi sulle conseguenze economiche per le imprese statunitensi. Secondo una ricerca della banca olandese ING, un quinto delle navi portacontainer che arrivano negli Stati Uniti è di fabbricazione cinese e sulle rotte del Pacifico la percentuale è ancora più alta. Imporre dazi su questo tipo di trasporto significherebbe aumentare i costi per gli importatori, con un possibile effetto domino sui prezzi al consumo. «Questi costi aggiuntivi saranno probabilmente trasferiti ai clienti e, in ultima analisi, ai consumatori», ha scritto ING in un report.
La misura si inserisce in un quadro più ampio di politiche protezionistiche avviate già durante la prima amministrazione Trump, che includevano pesanti tariffe su acciaio e alluminio, proprio per favorire la produzione nazionale. Ma gli analisti del settore marittimo avvertono che gli Stati Uniti non hanno attualmente la capacità industriale per costruire abbastanza navi da sostenere una politica di questo tipo. «Non esiste alcuna possibilità fisica che i cantieri navali americani possano riuscirci», ha dichiarato Lars Jensen, amministratore delegato della società di consulenza Vespucci Maritime.
Se la proposta dovesse entrare in vigore, gli esperti ritengono che molte aziende cercheranno soluzioni alternative, come lo sbarco delle merci in porti canadesi e messicani, per poi trasportarle negli Stati Uniti via terra. Una strategia che potrebbe aggirare i dazi, ma che rischia di creare problemi di congestione nei porti di quei Paesi. Secondo Ryan Petersen, amministratore delegato di Flexport, «questi porti sono già sovraccarichi e non potranno assorbire molta capacità aggiuntiva».
La Casa Bianca ha aperto un periodo di consultazione pubblica fino al 24 marzo, dopo il quale Trump potrebbe decidere di imporre i dazi con un ordine esecutivo. Se applicato, il piano prevederebbe anche un tetto del 15% per le esportazioni americane su navi con bandiera statunitense e un minimo del 5% di nuove navi costruite negli Stati Uniti entro sette anni. Ma i critici sottolineano che l’industria americana delle costruzioni navali è quasi inesistente e ripristinarla richiederebbe investimenti miliardari e tempi lunghi.