La tradizione di Nola che vive da più di un secolo a Brooklyn

Sto parlando della Our Lady of Mount Carmel Feast (OLMC Feast), ma per tutti è la “Festa dei Gigli”: un rito collettivo fatto di devozione, sudore e musica, che ogni anno trasforma le strade del quartiere in un teatro a cielo aperto

Siamo a Williamsburg, Brooklyn, ma sembra di essere atterrati a Nola, la città campana da cui è partita questa festa. Una comunità di emigrati nolani, arrivata qui già nel 1860, mantiene viva da oltre un secolo la tradizione della Festa di San Paolino, patrono della città. Oggi, i nolani di Williamsburg sono principalmente di quinta e sesta generazione: discendenti diretti di quegli immigrati che, anche parlando ormai principalmente inglese, portano avanti con orgoglio riti, lingua e memoria delle loro origini con forza.

Al centro della festa c’è il Giglio: una gigantesca torre di legno decorata, alta oltre venti metri e dal peso di 4 tonnellate portata sulle spalle da più di cento lifters. Il sollevamento e la danza del Giglio sono guidati da una paranza con ruoli precisi e un linguaggio unico, dove il comando tradizionale è “Uagliù, aizat’ e spall. Cuonc cuonc. E je!” (“Ragazzi, sulle spalle. Piano piano. E je!”). Col tempo, quel “E je!” — nel senso di “e jettatelo”, buttatelo giù — è diventato un più americano “Oh yeah!” che testimonia come tradizione e innovazione si intreccino da sempre in questo rito.

Questo mescolarsi di lingue e culture è affascinante: parole dialettali che diventano “suoni” da replicare, italianismi traslati, inglesismi diventati comuni in un dialetto italo-americano che vive e si reinventa ogni anno. Basti pensare ad “arugula” per indicare la rucola, o “gabagool” per il capicollo, ma anche alle celebri Fettuccine Alfredo, ricetta nata a Roma nel ristorante di Alfredo Di Lelio, che la creò per sua moglie Ines dopo il parto. Questo piatto, inizialmente composto da fettuccine, burro e parmigiano, ha poi ottenuto fama internazionale, soprattutto negli Stati Uniti, dove è stato adattato con l’aggiunta di panna, pollo e altri ingredienti diventando forse il piatto italo-americano più conosciuto.

Ma la festa non è fatta solo di tradizione e riti: è prima di tutto fatta di persone.

Ho voluto raccontare questo pezzo dal mio punto di vista personale. Sono campano, di Salerno, e per anni ho lavorato a Milano con un copywriter di Nola che fa parte di una paranza. Non che ne abbia mai preso parte, ma queste tradizioni portate oltre oceano, credo siano molto di più: sono un ponte tra passato e presente, tra due continenti, tra persone che si ritrovano in un rito collettivo.

I protagonisti sono i lifters (che a Nola chiamano “cullatori”), i capiparanza, i musicisti e la comunità che si stringe attorno al Giglio. Volti che sembrano usciti da un film di Scorsese o da una puntata dei Sopranos — ma sono tutt’altro che finzione.

Gli italo-americani, con i loro capelli impomatati, gli anelli vistosi, le camicie sgargianti, e le donne con il trucco marcato e la pelle abbronzata, incarnano un’estetica nata nel dopoguerra: una manifestazione di successo, orgoglio e appartenenza. Non sono stereotipi, ma la rappresentazione genuina di una cultura che ha cercato e trovato riscatto in un paese nuovo.

La Festa dei Gigli è un teatro dove passato e presente si mescolano: è fatica e gioia, musica e silenzi, parole urlate in un dialetto che sfida il tempo e i confini. È una comunità che resiste e si rinnova ogni anno, unita sotto il peso di una storia che pesa quasi quattro tonnellate.

A Williamsburg, oggi, questa tradizione è più viva che mai. E mentre il Giglio si solleva e ondeggia, è impossibile non percepire il battito di una cultura che avanza compatta, con forza e orgoglio.

Immagine di Michele Mari

Michele Mari

Michele Mari è un direttore creativo italiano e art director con base a Manhattan. Vive e lavora a New York, città che ama profondamente — quasi quanto ama la pizza. Quando non lavora su campagne o concept creativi, va a caccia delle storie (e delle fette) più sorprendenti della città, raccontandole su Instagram.

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