Recensione – Era mio nonno di Luca Perone

Un diario salvato dal silenzio racconta la verità di una guerra dimenticata

C’è un tipo di racconto che non nasce da un intento letterario, ma da una necessità più profonda: salvare la memoria. Era mio nonno è esattamente questo. Luca Perone non scrive per comporre un romanzo o firmare un saggio: scrive per restituire giustizia, visibilità e dignità a una generazione che ha combattuto, spesso taciuto, e troppo spesso è stata dimenticata.

Al centro del libro c’è il diario di guerra del nonno Saverio, fante della Divisione Messina, che tra il 1940 e il 1943 visse in prima linea il fronte dei Balcani. La sua testimonianza, rimasta a lungo inascoltata, emerge ora con tutta la forza del vissuto diretto. Non si tratta solo di cronaca militare: ogni riga trasuda umanità, fragilità, orgoglio, spirito di sopravvivenza.

L’autore riesce a costruire attorno al diario una cornice storica solida, mai pedante, capace di guidare il lettore nei meandri complessi del contesto politico-militare dell’epoca. Il Montenegro, l’Albania, la Dalmazia non sono solo nomi geografici: diventano luoghi simbolici, territori ambigui, teatri di guerra e di resistenza dove si consumano alleanze fragili, atti di eroismo e di crudeltà, drammi collettivi e storie personali.

Particolarmente riuscita è la sezione introduttiva, dove Luca Perone racconta con onestà e pudore il suo rapporto con il diario, con la figura del nonno, e con la responsabilità di tramandare quella storia. Le pagine in cui descrive la difficoltà di aprirlo, di leggerlo, di “reggere” il peso di quelle parole, sono tra le più autentiche del libro. È qui che emerge il senso profondo dell’opera: non è solo un racconto, è un passaggio di testimone.

Il diario, scritto in stampatello da Saverio Perone, è una voce che arriva da lontano ma parla con straordinaria chiarezza. La lingua è semplice, a volte ruvida, ma diretta, viva, reale. Ogni pagina è un frammento di vita in guerra: marce sotto la pioggia, notti al gelo, scontri con i partigiani, rastrellamenti, fucilazioni, episodi di solidarietà tra commilitoni, riflessioni amare sul senso del sacrificio. La guerra, qui, non è raccontata da generali o dai libri di scuola: è raccontata da chi l’ha camminata a piedi, un passo alla volta.

Uno dei passaggi più toccanti è senza dubbio quello in cui i soldati assistono alla fucilazione di tre ribelli montenegrini, che prima di morire intonano a voce alta il canto: “Ova borba zahtijeva: kad se gine da se pjeva” (“In questa lotta forte sia il cuore: si deve cantare quando si muore”). È un momento che va oltre la storia: parla al presente. Parla di umanità, di orgoglio, di disperazione trasformata in dignità.

Il libro è anche ricco di riferimenti storici preziosi: dalla struttura della Divisione Messina alla descrizione della campagna italiana nei Balcani, dalle complesse alleanze con i cetnici alla figura del generale Pirzio Biroli, passando per eventi dimenticati come la battaglia di Pljevlia o la proclamazione del Regno del Montenegro sotto l’influenza italiana. L’autore riesce a intrecciare con equilibrio la narrazione storica e quella personale, offrendo al lettore sia un contesto che una voce.

Non mancano momenti di grande tenerezza, come il racconto della colletta tra i soldati per sostenere la vedova di un compagno caduto, o le riflessioni finali dell’autore sulla domanda che attraversa tutto il libro: “Ne è valsa la pena?” È una domanda che non ha risposte facili, ma che è giusto porsi. Ed è proprio nel porla, nell’aprirla, che il libro trova il suo significato più profondo.

Era mio nonno è una lettura che lascia il segno. Fa emergere le storie minori — e per questo fondamentali — che hanno costruito la nostra memoria collettiva. È anche un invito a non dimenticare, a interrogarsi su cosa significa davvero “Patria”, e su quanto sia fragile la linea che separa l’eroismo dalla disperazione.

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