All’Academy Museum di Los Angeles si accendono le luci sulla retrospettiva dedicata a Carlo Rambaldi, nel centenario del grande maestro degli effetti speciali italiani, tre volte premio Oscar e artefice di alcune tra le più iconiche creature della storia del cinema. In questa cornice, tra il pubblico in sala per la proiezione di Profondo Rosso, siede Dario Argento, regista, sceneggiatore e autentico architetto della paura.
Prima di diventare il maestro dell’horror moderno, Argento non pensava nemmeno di mettersi dietro la macchina da presa. «Avevo scritto L’uccello dalle piume di cristallo — racconta — e la produzione cercava un regista. Ma mi proponevano nomi mediocri, senza visione. Mio padre, che era il produttore, a un certo punto mi disse: “Ma perché non lo dirigi tu?”. Così ho cominciato. Era il mio primo film. E da quel momento non ho più smesso».
Seduto sul palco del David Geffen Theater, con voce pacata e lo sguardo vivissimo, Argento racconta il suo cinema come un’esperienza fisica e sensoriale. «Naturalmente preferisco stare sul set — dice — con i tecnici, con il direttore della fotografia, con la mia macchina da presa. Per me la macchina da presa è un genio, il genio della lampada: cammina, vive, respira. È l’unico insegnamento che mi ha dato Sergio Leone: la macchina da presa è il centro del regista, il resto viene da sé».
A ottantaquattro anni, Dario Argento conserva intatta la curiosità di un esordiente. «Mi piace impaurire gli altri, ma mi piace anche avere paura io», confessa sorridendo. «Quando sei in fondo alla sala buia e il pubblico reagisce al tuo film, quella paura collettiva diventa una magia. È come se il film lo stessi facendo insieme a loro».
Poi il ricordo affettuoso e divertito di Carlo Rambaldi, protagonista della rassegna. «Ci siamo conosciuti dal mio primo film e abbiamo lavorato sempre insieme, fino a quando lui è venuto negli Stati Uniti. È stata una collaborazione piena di strane avventure. Non tutti sanno che sua moglie lo aiutava negli effetti speciali. Una notte, tornando dal set con delle mummie di scena nel bagagliaio, fu fermata dalla polizia. Quando aprì il baule, gli agenti rimasero terrorizzati! Non erano abituati a certe visioni, pensavano fossero vere».
Tra i momenti più amati della carriera di Argento, Profondo Rosso resta l’emblema del suo cinema barocco e perfetto. «Non so se sia il mio film migliore, ma è sicuramente il più amato. È un film dove c’è tutto: umorismo, orrore, arte, macchina da presa. Molta macchina da presa. Se in un film non c’è macchina da presa, il film non esiste».
Il regista ricorda anche la nascita di una delle colonne sonore più celebri del cinema. «All’inizio dovevano essere i Genesis, poi i Pink Floyd. Ma erano impegnati e non poterono. Tornai dall’Inghilterra molto triste, perché la musica più bella allora si faceva lì. In Italia il mio produttore mi fece sentire un promo di un gruppo di giovani appena usciti dal conservatorio. Erano i Goblin. Venivano di notte sul set, pieni di energia, e la loro musica divenne qualcosa di unico. Un suono che non imitava nessuno».
Per Argento, scrivere un film è come viverlo in tempo reale. «Quando scrivevo Profondo Rosso vivevo in una piccola casa di campagna senza luce né acqua. Ogni mattina mi sedevo alla macchina da scrivere e vedevo le scene davanti ai miei occhi. Gli attori, i movimenti, le luci. Le mani si muovevano da sole. In tre settimane il film era pronto. Lo feci leggere a mio padre e a mio fratello, che erano i produttori, ma non gli piacque. Dicevano che era troppo strano. Io dissi: “È inutile che dite che non vi piace, io lo faccio”. E poi arrivò il successo».
Quando gli chiedo se dopo tante scene di sangue si senta mai in colpa, il regista annuisce. «Sì, lo faccio. Quando giro qualcosa di violento o sanguinoso, chiedo perdono. Lo faccio perché qualcuno mi ama, e voglio ringraziarlo. È un modo per dire grazie alla vita e all’arte».
Negli ultimi anni, Dario Argento ha esplorato anche l’erotismo con la stessa libertà con cui ha raccontato la paura. «Ho lavorato con Berger in Jennifer e Pelts, film audaci, molto sexy. Penso che i film erotici, se ben fatti, siano bellissimi. Raccontano la nostra sessualità, e anche quella è una parte dell’essere umano».
La serata si chiude tra applausi e commozione. «Sono felice — dice il regista — perché qui, a Los Angeles, dove Rambaldi vinse l’Oscar, torno a sentire il battito del cinema». Sullo schermo scorrono i titoli di Profondo Rosso e le note ipnotiche dei Goblin. In sala, il tempo sembra fermarsi: il maestro del brivido ha appena ricordato a tutti che la paura, quando è arte, è una forma di amore.




