Carmen Consoli, due sere a Roma per chiudere il cerchio di “Amuri Luci”

All’Auditorium Parco della Musica le ultime date del tour teatrale di Carmen Consoli, tra il nuovo progetto e trent’anni di repertorio

Quando ho visto Carmen Consoli suonare a New York nel 2024, alle prese con un progetto costruito attorno a strumenti popolari siciliani e a un’idea da maneggiare con cura, mi era rimasta addosso soprattutto una cosa: la sua capacità di cambiare contesto senza cambiare postura, cioè di stare in un club di Manhattan e parlare comunque la lingua della propria terra, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Era il tour di Terra ca nu senti, partito proprio da lì e poi passato per altre città americane, un viaggio dichiaratamente legato alla tradizione e alle radici, con un impianto quasi “di bottega”, fatto di suoni antichi e di una contemporaneità che arrivava per stratificazione e non per slogan. 

È un approccio che Consoli (profilo IG) coltiva da tempo e che si rivela particolarmente utile per leggere le due date romane del 28 e 29 dicembre all’Auditorium Parco della Musica, come chiusura di un tour teatrale iniziato in autunno e costruito sin dall’inizio attorno ad Amuri Luci. Entrando in sala, più che assistere a una tappa come le altre, ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a un punto di arrivo, a un momento in cui tirare le fila di un lavoro pensato per il palco, non come semplice presentazione di un disco nuovo, ma come spettacolo strutturato, diviso chiaramente in due parti, con una sua grammatica musicale e visiva.

La Sala Santa Cecilia ha quell’acustica calda e controllata che permette a un’artista come Carmen Consoli di fare la cosa che le riesce meglio quando decide di non semplificare: giocare con le sfumature, far pesare le consonanti, lasciare che una chitarra o un giro di basso cambino senso a una strofa senza dover alzare la voce. La cantautrice entra in scena vestita di bianco, chitarra in spalla, con la band leggermente arretrata, e apre il concerto con una sequenza compatta di brani da Amuri Luci.

La scelta è netta e, in un certo senso, anche rischiosa: invece di alternare subito successi e novità, Consoli chiede al pubblico di entrare nel nuovo progetto senza stampelle. La musica scorre come un unico flusso, in cui la lingua diventa elemento sonoro prima ancora che semantico. Greco antico, latino e soprattutto dialetto siciliano non servono a “colorare”, ma a suggerire un attraversamento del tempo, un archivio emotivo che passa dalla poesia alla storia e che sul palco assume una forma quasi teatrale, sospesa, sostenuta da visual insistenti su paesaggi marini, figure e prospettive legate al mito, alla memoria e alla guerra. Il punto è chiaro: non è un disco da spiegare tra una canzone e l’altra, ma qualcosa da attraversare per intero.

Anche i duetti – con Mahmood, Jovanotti e il tenore Leonardo Sgroi – presenti nel disco vengono trattati come presenze indirette, senza trasformarli in “momenti”. L’unico colpo di realtà, in mezzo a un impianto che guarda molto al tempo lungo e alla stratificazione culturale, arriva quando sugli schermi compaiono immagini legate alle manifestazioni per la Palestina: è un inserto breve, ma sufficiente a spostare per un attimo il clima della sala, ricordando che quel discorso sul passato non resta isolato e che la dimensione politica entra nello spettacolo senza essere dichiarata apertamente.

Dopo l’intervallo, però, lo spettacolo cambia faccia con una naturalezza che è uno dei suoi punti di forza, perché Carmen Consoli rientra con un tono più colloquiale, chiede al pubblico come se la sia cavata con il siciliano, scherza, rompe la distanza, e soprattutto apre la seconda parte, quella che la maggior parte delle persone aspetta anche quando viene “per il disco nuovo”: la cavalcata dentro il repertorio. La differenza, rispetto a tanti concerti costruiti con la logica del greatest hits, è che qui non c’è la sensazione di una scaletta messa insieme per accontentare tutti, ma di un’artista che usa i brani noti come se fossero materiali vivi, che possono cambiare forma a seconda del contesto, della band, del teatro, della serata.

Entrano così canzoni che hanno segnato momenti diversi della sua carriera, da AAA Cercasi fino alle cose più lontane, e in mezzo ci sono quelle scelte che, per un pubblico “da teatro”, funzionano sempre: un segmento acustico in cui la band si ritira e lei resta da sola con chitarra e voce, e lì l’Auditorium diventa improvvisamente una stanza più piccola, perché L’ultimo bacio, Parole di burro, In bianco e nero non sono solo tre titoli riconoscibili, sono tre modi diversi di usare la scrittura per mettere insieme fragilità e ironia, precisione melodica e intonazione narrativa. 

C’è spazio anche per brani meno frequentati dal vivo, recuperati come piccoli regali per chi segue da anni e sa riconoscere una deviazione dalla scaletta “standard”, e nel complesso quello che colpisce è la durata, oltre le due ore abbondanti, senza che si avverta stanchezza o dispersione, perché le due anime della serata — l’opera nuova, più colta e ricercata, e la Consoli più pop, diretta, spesso anche più scanzonata — non vengono trattate come due mondi incompatibili, ma come due registri della stessa identità artistica.

Visto da New York o da Roma, il filo è lo stesso: portare un progetto molto radicato, farlo suonare davanti a pubblici diversi, e non cambiare registro per renderlo più “spendibile”. Non è un’operazione nostalgica né una prova di forza. È semplicemente il modo in cui Carmen Consoli continua a stare sul palco, lasciando che siano le canzoni – nuove o vecchie – a reggere il peso della serata.

Immagine di Monica Straniero

Monica Straniero

Monica Straniero è una giornalista e collabora con testate italiane e internazionali. Si occupa di cultura pop, storie urbane e immaginari contemporanei

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