È stato il fuoco, appiccato con un accendino trovato nella tasca di una vecchia giacca, a spezzare la prigionia di un uomo che, per vent’anni, era rimasto nascosto al mondo in una stanza di pochi metri quadrati, al secondo piano di una casa al numero 2 di Blake Street, Waterbury, in Connecticut. Quando i vigili del fuoco sono entrati nell’edificio avvolto dal fumo, lo hanno trovato accasciato sul pavimento della cucina, quasi privo di peso. Era la prima volta che usciva di casa da quando aveva 12 anni.
Durante il tragitto in ambulanza verso l’ospedale, ha cominciato a parlare. Si è presentato, ha detto di avere 32 anni e ha raccontato agli agenti che lo ascoltavano di essere stato tenuto in cattività dal padre e dalla matrigna per oltre due decenni. Rinchiuso in una stanza chiusa dall’esterno con un catenaccio, riceveva pochissimo cibo, non vedeva un medico da vent’anni e non gli era permesso uscire se non per pochi minuti al giorno, nei momenti in cui veniva fatto uscire a portare fuori il cane. Le sue ginocchia sono deformate, il peso corporeo al momento del ricovero era di appena 30 chili.
Nel 2005 era stato ritirato dalla scuola pubblica con la motivazione di una presunta istruzione domestica. Da allora, nessun insegnante, nessun vicino, nessun compagno di classe lo aveva più rivisto. Eppure in molti, nel quartiere e nella comunità scolastica, avevano più volte segnalato le loro preoccupazioni. «Sapevamo che qualcosa non andava», ha detto Tom Pannone, ex preside della Barnard Elementary School, dove il ragazzo aveva frequentato la scuola elementare. «Sembrava allegro, ma era sempre affamato, disordinato. Chiamavamo i servizi sociali, ma ci rispondevano che era tutto a posto».
Secondo i documenti della polizia, l’uomo era costretto a defecare su fogli di giornale e a urinare attraverso la finestra. I denti erano così rovinati che si rompevano quando provava a mangiare. Durante gli anni di reclusione, ha letto e riletto gli stessi libri, cercando le parole sul dizionario, cercando di auto-istruirsi. Seguiva le stagioni grazie alle voci della radio, appassionandosi alle gare NASCAR e al basket dell’Università del Connecticut. Guardava fuori dalla finestra e contava le auto che passavano.
Il giorno dell’incendio, racconta, aveva trovato un flacone di disinfettante per mani con etichetta infiammabile e lo aveva usato, insieme all’accendino del padre defunto, per dare fuoco a una pila di carta. Ha aspettato che il fuoco si propagasse, poi ha chiamato aiuto. «Ha scelto consapevolmente di non alzarsi, così i vigili del fuoco sarebbero stati costretti a portarlo via», si legge nell’affidavit della polizia. «Credeva che fosse l’unica via d’uscita».
La matrigna, Kimberly Sullivan, 57 anni, è stata formalmente accusata di sequestro di persona, aggressione, crudeltà, detenzione illegale e messa in pericolo. Si è dichiarata non colpevole e, secondo il suo avvocato, respinge ogni accusa: «È convinta di non aver fatto nulla di male», ha detto Ioannis Kaloidis, che ha attribuito le responsabilità al padre del ragazzo, Kregg Sullivan, morto nel 2023. «Non era lei la madre del bambino», ha aggiunto.
Il caso ha suscitato grande attenzione a Waterbury, una piccola città ex industriale del Connecticut, ma anche molte domande su come un’intera comunità, e soprattutto le autorità preposte alla tutela dei minori, abbiano potuto ignorare per così tanto tempo i segnali d’allarme. Il Dipartimento per la Famiglia e l’Infanzia del Connecticut, più volte allertato tra il 2001 e il 2005, aveva sempre concluso che «il bambino stava bene».
Secondo quanto riferito, dopo la morte del padre le restrizioni erano diventate ancora più severe. L’uomo veniva lasciato solo per giorni interi, senza cure né assistenza. La porta della sua stanza, ora inserita tra i reperti del processo, era rinforzata con pannelli di legno ed evidentemente progettata per impedirne l’uscita. Due sorelle più piccole vivevano nella stessa casa, apparentemente libere di uscire e condurre una vita normale. Nessuna di loro è al momento indagata.
La madre biologica dell’uomo, Tracy Vallerand, aveva rinunciato alla custodia trent’anni fa, sperando che il figlio potesse avere una vita migliore col padre. Dopo anni senza notizie, ha riconosciuto il figlio soltanto guardando il filmato della bodycam dei vigili del fuoco. «Ho pianto, ho urlato, e mi ha fatto sentire meglio per un po’, ma questa è una realtà da incubo», ha detto in un’intervista. «Ma sono così orgogliosa di lui. Non posso smettere di dirlo».
Oggi l’uomo si trova in una struttura riabilitativa. Ha bisogno di un programma nutrizionale calibrato per evitare complicazioni potenzialmente fatali e sta ricevendo sostegno psicologico. Una raccolta fondi ha già superato i 200.000 dollari. La sua identità, per il momento, non è stata resa pubblica. Un tutore nominato dal tribunale si occupa di tutelarne gli interessi. Ma resta la domanda che nessuno riesce a ignorare: com’è possibile che un bambino scompaia per vent’anni e nessuno, davvero nessuno, riesca a salvarlo?