Intorno ai caratteri ed alle “ragioni” del divario, che esiste fra le regioni del Mezzogiorno e le aree maggiormente sviluppate del nostro Paese, sono stati versati fiumi di inchiostro. La “questione meridionale” è forse il leit motiv più ricorrente nel dibattito fra economisti, politologi, storici, sociologi.
Su talune odierne letture del fenomeno, in certi casi, pare mostrarsi una certa convergenza: il Sud sperimenta una forte carenza di tipo infrastrutturale, che si associa a una cronica inefficienza della pubblica amministrazione, questi fattori, combinati fra loro, frenano le opportunità di sviluppo, le quali, naturalmente, generano scarse opportunità lavorative, favorendo la persistenza di sacche endemiche di disoccupazione e “sommerso”, nelle quali trova alimento la criminalità organizzata, la cui presenza capillare sul territorio condiziona fortemente il modo di funzionare dell’apparato politico ed istituzionale generando gravi fenomeni di collusione, malversazione e clientelismo.
Una dimensione di insicurezza diffusa che scoraggia gli investimenti, impedendo la creazione di nuove opportunità lavorative ed alimentando così il ciclo della marginalità e quindi il brodo di coltura della malavita. È un circolo vizioso. Un gatto che si morde la coda. Evidentemente ci sono forti elementi di verità in questo ragionamento, insomma, non si tratta di un’analisi astratta svincolata dai dati di realtà.
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Sono le linee essenziali sulle quali si muove la riflessione “meridionalista” contemporanea, e certo non possono essere liquidate con un’alzata di spalle. Eppure, io mi sono chiesto in varie occasioni, se il “discorso” meridionalista non sia esso stesso un tassello del circolo vizioso che imprigiona il nostro Sud.
La cornice “retorica” che fornisce, da troppo tempo, alibi e giustificazioni al mancato take off del Mezzogiorno d’Italia. Perché il dato reale è questo e basta un solo indicatore ad evidenziarlo. Nelle regioni meridionali il reddito pro capite è all’incirca la metà di quello di cui si dispone nelle aree più sviluppate del centro nord.
Ma andiamo con ordine. Secondo molti studiosi la ragione è tutta da ricercare negli errori con i quali si è realizzata l’unità d’Italia. È una tesi sostenuta da alcuni dei più classici teorici della questione meridionale: il florido regno delle due Sicilie depredato dai piemontesi e compagnia cantante. A mio parere, se questo ha inciso, lo ha fatto in modo limitato e parziale. Il divario c’era già prima ed era molto sensibile. Del resto, se il regno borbonico era il paradiso di efficienza e modernità di cui si favoleggia, non si spiega come sia stato possibile il suo crollo repentino, la teoria infinita di complicità e tradimenti che ha travolto il gruppo dirigente dello stato, in tutti i suoi comparti, che fu la principale ragione del successo dell’impresa garibaldina.
In realtà la dimensione politica, militare, amministrativa del Sud era già in una profonda crisi. La nascente rivoluzione industriale la stava già accentuando. Perché l’avvento della meccanizzazione in agricoltura portava incrementi produttivi formidabili nelle fertili pianure irrigue dell’area padana. Ma non è stato lo stesso per le piccole zone coltivabili, aride, collinari e montuose del nostro Sud. In cui vigeva ancora il latifondo, mentre al centro-nord già progrediva “l’imprenditorialità” a carattere mezzadrile. I capitali di partenza del “successo” settentrionale sono venuti da lì.
Dal punto di vista dell’orografia poi le differenze pesano ancora e molto. Costruire un’autostrada in pianura padana, per fare un esempio eclatante, può costare anche 100 volte meno che realizzarla in certe parti della Calabria o della Basilicata. E questo non è e non è stato ininfluente.
Ma ritorniamo al nostro “circolo vizioso” contemporaneo. La domanda è: come uscirne una volta per tutte? Il discorso pare avere un andamento autoreferenziale, gira su sé stesso e ci si ritrova al punto di partenza. Secondo Bateson quando ci si trova in una condizione del genere, per sottrarsi al “paradosso” sistemico, bisogna dislocarsi su un “metasistema”. Ecco, il primo punto è che il Sud deve guardare fuori di sé. Deve pensarsi per quello che rappresenta in dimensione più ampia: una grande piattaforma mediterranea dello scambio, dello sviluppo, del progresso. Con il mare di mezzo che ha riacquistato la sua centralità, non solo sul piano economico, ma sul terreno geopolitico globale, il Mezzogiorno d’Italia è, naturaliter, lo snodo di una nuova stagione di innovazione, nella strategia di sviluppo che “deve” investire il Maghreb, il MO, i Balcani, ed attraverso Suez l’intero bacino indorientale.
Ora, questa orribile “guerra mondiale a pezzi” rende tutta la visione più opaca. Ma dovrà pur finire, con una “pace giusta” come si spera. Ed allora il nostro Sud rivelerà tutto il suo potenziale di vettore, per la socializzazione della sponda Sud e est del mediterraneo, ai valori di democrazia, libertà, pluralismo, stimolando il progresso civile, la dinamica del mercato, l’innovazione tecnologica e con essi il benessere per grandi masse. Non dovrà più essere oggetto delle cronache per i naufragi drammatici dei migranti. Ma dovrà essere la stazione dell’esportazione mercantile, dello scambio commerciale, del trasferimento tecnologico. Il Sud dovrà essere per tutto il bacino mediterraneo come e più della Puglia che è divenuta un terminale decisivo per lo sviluppo fra le due sponde dell’adriatico.
Gli indizi di questa possibilità sono molteplici. Perché, bisogna dirlo, il Mezzogiorno non è solo arretratezza, nel Sud vi sono moltissime realtà produttive, imprenditori lungimiranti, interi distretti che funzionano ed hanno un potenziale di sviluppo ancora non espresso del tutto. I dati recenti sull’export sono assai incoraggianti. Ed anche il turismo (che non può in alcun modo essere sostitutivo dello sviluppo industriale) sta dando un utile contributo, che può essere ancora più incalzante se miglioriamo la dotazione infrastrutturale e i fondamentali dell’economia.
Insomma, il decollo del Sud non potrà risultare da un vecchio meridionalismo assistenzialista e piagnone. Ma deve scaturire dalla realizzazione di un progetto di ampio respiro. Il Sud come “Ponte mediterraneo”. E il suo emblema dovrà essere il ponte sullo stretto, l’opera più ardita mai pensata dell’ingegno umano. “L’attrattore strano” destinato a generare decine di migliaia di posti di lavoro, a rilanciare la siderurgia, la meccanica, l’edilizia, la chimica. A portare nel nostro Sud migliaia di viaggiatori per vedere il simbolo sublime di un’umanità che si congiunge, si unifica e progredisce.