Gianluca Sardo: il tocco italiano negli eventi top a New York

Quella di Gianluca Sardo è senza dubbio una storia esemplare di professionalità, impegno, successo. Da quasi 10 anni negli States, l’attuale COO di The Glasshouse ha messo le sue idee e competenze al servizio di eventi, ristorazione e hospitality in alcune delle realtà più dinamiche di New York. La sua è sicuramente una storia italiana, perché parte da un bagaglio di stile e know-how che viene dalla sua Torino. Ma è anche una storia puramente americana che parla di una crescita professionale vertiginosa e inarrestabile. In una lunga e approfondita intervista, ci siamo fatti raccontare il suo “salto” in America, le più grandi sfide affrontate e le sue esperienze e ambizioni in un ambiente di lavoro stimolante e in continua evoluzione.

Vorrei iniziare proprio dalla tua storia, parlaci un po’ del tuo arrivo negli States e di come è iniziato il tuo sogno americano…

Sono arrivato qua ad aprile del 2015, tramite Eataly, che mi ha portato a New York, con il classico visto lavorativo. Io ho lavorato per circa otto anni come direttore di un villaggio turistico a quattro stelle in Emilia Romagna, vicino Ferrara. Divertimento, ma anche molto stress, un non stop senza giorni liberi. Nell’estate del 2014 conosco la mia futura moglie, italiana, tramite amici comuni, entrambi di Torino. E lei mi comincia subito a raccontare, durante la nostra frequentazione, il suo sogno americano. Era venuta qui prima che ci conoscessimo, provando a trovare lavoro, fermandosi per un mese. Tantissimi tentativi ma, come sappiamo, non è proprio semplice trovare un lavoro regolare a New York. Per l’8 di dicembre dello stesso anno, allora, ci regaliamo un weekend lungo qui in città. E durante il viaggio, andiamo a mangiare da Eataly al Flatiron, allora l’unica sede in America. Lei mi dice, “ma cavolo, noi siamo di Torino, Eataly è di Torino, vuoi che non cercano qualcuno qui?” A me cercano sicuro, stanno aspettando proprio me. Allora torniamo in albergo quella sera, vado sul sito di Italy US, c’erano le posizioni aperte, no? Dieci giorni dopo, ricevo una mail da Italy dove si dicevano disponibili per fare un colloquio, ma io ormai ero tornato. Allora tramite LinkedIn, che è parte fondamentale della mia carriera qui a New York, contattai un mio coetaneo, anche lui di Torino, e che era in charge qua a New York. Riuscì lui a organizzarmi il tutto e da lì, nel giro di pochi mesi, arrivai a fare il colloquio con il general manager di New York via Skype, che all’epoca non si capiva se prendeva, non prendeva, se si capiva. Una conversazione interessantissima (ride, Ndr). L’ultimo colloquio a Milano, allo Smeraldo, con Nicola Farinetti, che all’epoca era il CEO di Eataly USA. Lui mi disse ”guarda, tu hai un curriculum molto interessante, però non hai mai lavorato con noi. Se vuoi andare a fare l’esperienza a New York, devi ricominciare dal basso”, gavetta. Sono ripartito facendo il floor manager, a Pizza e pasta, 1.000 coperti al giorno. È stata una bellissima esperienza, mi ha aiutato a migliorare la lingua, che pensavo di conoscere bene, e invece non proprio. Ho anche avuto la fortuna di avere un collega americano con cui mi son messo d’accordo e, ogni sera, finito il turno, andavamo allo Starbucks lì di fronte, per fare conversazione e sciogliermi un po’, anche perché dovevo fare questi pre-shift con il team, ogni tanto veniva Bastianich, dovevo conversare molto più di quello che mi aspettavo.

A questo punto, come spesso avviene a New York, arriva una nuova opportunità, ma con un problema di visti rimasti in sospeso, giusto?

Sì, dopo un anno e qualche mese, quando ormai mi sentivo molto preparato, mi contatta un famoso recruiter, perché Giorgio Armani US cercava il general manager per il loro ristorante sulla Fifth Avenue. Quindi dopo il primo passaggio da Eataly, mi sono ritrovato a gestire il ristorante di Giorgio Armani a New York: una situazione molto interessante, di alto livello, iniziata a novembre del 2016, una settimana prima che Trump venisse eletto, e il ristorante è esattamente davanti alla Trump Tower, infatti da quel momento è stato un nightmare, perché hanno chiuso tutto, neanche fossimo in guerra. Però, come dici tu, continuavo ad avere un problema di visto, potevo lavorare solo per aziende italiane. E un po’ era limitante perché ricevevo un sacco di offerte da aziende e catene ristorative grosse e prestigiose, però purtroppo a colloquio, quando si arrivava a parlare di Green Card, era un no, peccato. E questo mi rodeva, perché New York è un posto costoso e devi raggiungere certi livelli. Ho avuto a quel punto la fortuna o la bravura di incontrare un italiano che lavorava nel Spring Place, un membership club con spazio eventi a Tribeca, dove organizzano anche la Fashion Week, il Tribeca Film Festival, e tanto altro. Mi propone un accordo: vieni ad aiutarmi a gestire questo nuovo posto che abbiamo aperto, con ristorante, membership club, rooftop, e io ti aiuto col visto. I loro avvocati mi hanno aiutato, sono riuscito a prendere l’O-1, che è quello per gli artisti, adesso non chiedermi. Ho dovuto mettere insieme qualsiasi cosa avessi fatto nella mia precedente vita e corrente, e sono riuscito a prendere questo O-1. Ho lavorato con loro un annetto, anche perché ero già in parola con South Seaport e i loro proprietari, la Howard Hughes Corporation, perché stavano lanciando il progetto dei concerti al Pier 17. Con loro aperto tutti i ristoranti che ci sono attualmente al Seaport, e ho lavorato come General Manager di ristoranti e a capo degli eventi per tre anni.

A quel punto ormai eri convinto di rimanere…

Esatto, ormai mi sentivo un italiano che vuole stare qua per sempre. E allora mi son detto, facciamo la self-application per la Green Card. In una notte mi sono messo lì, ho prodotto tutta la mia bella documentazione che già avevo raccolto per l’O-1 e l’ho spedita all’USCIS, o la va, o la spacca. Perché l’O-1 non si estendeva a mia moglie che intanto era qui e lavorava per un’azienda italiana, ma stava finendo quel grey period concesso dal visto. Mi risponde l’USCIS e mi dice: un punto lo passi, voglio più informazioni sull’altro. Allora il mio avvocato, che mi aveva detto che non l’avrei mai presa così, torna nella partita e mi aiuta senza mettere il suo nome, continuando la strada della self application. Una mattina mi arriva il messaggio dall’USCIS: andata, Green Card, pazzesco, Ho svegliato mia moglie e le ho fatto vedere il messaggio con scritto “approved”. E proprio due mesi fa abbiamo preso entrambi la cittadinanza, sono passati da allora cinque anni, nove anni dal nostro arrivo.

E durante la pandemia com’è stata la tua esperienza di vita e professionale a New York?

Ero al Seaport anche durante la pandemia e ho avuto la fortuna che la mia azienda mi tenesse in payroll durante quel periodo. E poi a luglio 2021 ci venne in mente questa idea geniale di creare The Greens sul rooftop al Pier 17: immaginati delle isolette, create seguendo le regole del massimo 10 persone, distanziamento, mascherine, con il QR code per fare gli ordini automatici che arrivavano in cucina. Facevamo mille persone al giorno, da luglio 2021. L’unico spiraglio di vita a New York, tant’è che venivano CNBC e tanti altri a farci i video, e ho gestito quel progetto lì per la mia azienda. Abbiamo volato altissimo quell’estate, e abbiamo riprodotto l’esperienza in inverno con delle casette tipo chalet di montagna, sempre per 10 persone massimo.

Come quelle del Rockefeller?

Ci han copiato, siamo stati noi i primi. L’abbiamo fatto a dicembre di quell’anno, 26 casette, con la televisione e il caminetto dentro, proprio fichissime E abbiamo poi ripetuto per tutta l’estate successiva la stessa esperienza.

A quel punto battuta d’arresto e ripartenza da qui…

Ad aprile, dopo che erano tre anni che lavoravo non stop, abbiamo deciso di separarci  pacificamente con l’azienda. Mi sono preso un periodo di pausa, anche perché mia mamma in Italia non stava benissimo, e purtroppo è venuta a mancare tempo dopo. E quindi ho preso un po’ di tempo per fare quanto possibile avanti e indietro tra New York e Torino. Succede poi che un amico comune, un altro italiano che lavorava con me a Seaport, proprietario di un’azienda di pulizie, mi chiama e mi dice “guarda stanno cercando il director of operations per questo nuovo posto che apriranno tra un mese e farà eventi che si chiama The Glasshouse. Io ho fatto il tuo nome”. Io mi ero messo d’accordo bene con la precedente azienda e l’idea era di rimanere un po’ a casa fino a fine anno, lui insiste, mi dà il numero e alla fine chiamo uno dei partner qui a The Glasshouse. Anche perché stare a casa, bello eh, però non è per me. Sono uno che deve fare. Allora mi danno l’indirizzo per un colloquio all’indomani. Guardo l’indirizzo e mi rendo conto che vivo esattamente di fronte, dall’altra parte dell’acqua. Guardo Google, mi affaccio alla finestra e dico a mia moglie “ma io credo che sia quello”. Giorno dopo prendo il mio battellino e vedo per la prima volta questo palazzone qui, tutto nuovo.

Era già così come lo vediamo noi oggi?

Ni. Quasi, non c’era ancora il marmo all’ingresso per dire. Conosco questi due proprietari e mi sembra una cosa interessante. Avevo gestito ristoranti, anche importanti, tante persone, eventi nei ristoranti, ma mai qualcosa di così grande. Qui intravedo una serie di sfide in più, di sfide. La mattina dopo, mi hanno mandato l’offerta, una proposta di mio interesse e ho detto a mia moglie, “c’è ancora mia mamma che sta ancora così, così, che facciamo?” Perché eravamo verso la fine, no? Mi son detto, vabbè prendiamo l’opportunità, ovviamente mettendo in chiaro che sarebbe potuto succedere in qualsiasi momento di dover tornare in Italia per qualche giorno. Comincia la mia avventura, guardo la scaletta degli eventi e il primo è due settimane dopo. “Ma manca un muro”, dico. Chiedo “avete mai provato ad accendere tutto?”. La risposta è no. Guardo il nome di questa planner coinvolta nel primo evento – allora non ero addentrato nel mondo del wedding – e scopro che è tra le top 3 planner a New York. Perfetto: o cominciamo bene, o chiudiamo il giorno dopo. Quindi abbiamo lavorato notte e giorno, con tubi che esplodevano, sealing di queste green room che venivano giù ogni notte e s’allagavano. Cose da testare, qualcosa che mancava. Vabbè, alla fine, riusciamo io e un team di 5-6 a portare a casa questo primo top wedding.

Un evento di Glasshouse

Come sta andando ora il progetto The Glasshouse e in che direzione lo state portando?

Siamo partiti così e siamo arrivati in tre anni a fare 160 eventi. Nel 2024, abbiamo aumentato del 30% il fatturato, con quasi 60 persone a lavorare qua fisse, 300 quando ci sono gli eventi. Personalmente ho fatto una carriera velocissima in azienda: sono partito da director of operations, poi mi hanno promosso un annetto e mezzo fa a managing director,, e e tre mesi fa sono diventato COO della compagnia. Questo perché abbiamo un investitore molto grosso che è il Carlyle Group, che si occupa di real estate, ed è proprietario al 90% qui,. L’azienda ha idee e progetti proprio per un’ulteriore crescita: il director of finance è diventato il CFO, io son diventato CEO, e abbiamo aggiunto altre figure per creare la struttura necessaria per i prossimi passi: stiamo guardando a Los Angeles, a Miami, e anche a un altro spot in città, ci stiamo espandendo.

Quindi ci saranno più location, sempre con The Glasshouse come brand?

Sì, perché oltre alle due Glasshouse di diretta proprietà da 15 anni di uno dei nostri partner, questa invece è una joint venture con Carlyle, perché ovviamente per un’operazione del genere hai bisogno di collaborare con un fondo. Abbiamo capito che questo è un sistema vincente, un modello vincente se ha le specifiche caratteristiche della Glasshouse oggi: quindi se ha le green room, se ha la VIP lounge, se dai la possibilità di modulare, se scegli location con accesso facile – non devi andare a imbottigliarti nel traffico a Times Square insomma -, se ha belle rifiniture. Perché fa anche quello la differenza: in tre anni sono passate 300.000 persone da noi e ancora la location è in condizioni buone.

Quindi la tua è una storia newyorkese fatta di tante collaborazioni e amicizie professionali, spesso con altri italiani, no?

Assolutamente, sono sempre stato molto coinvolto nella comunità italiana, dal primo momento. A me piace fare networking, lavoravo con il precedente console Genuardi, quando avevo il ristorante veniva da me, mangiavamo, andavo al consolato a fare un po’ di free catering. Lo stesso con l’Italian Chamber Commerce, perché avevano gli uffici davanti a Armani, quindi tutti i giorni a pranzo ricevevo il direttore Tozzi. Mi hanno anche chiesto di candidarmi al board, e ho accettato, ma ho davvero tanti buoni contatti anche con la scuola d’Italia e ovviamente il Consolato. Non so dirti come mai, ma alla fine le amicizie finisci sempre ad averle con altri italiani.

E come la vedi e la vivi questa comunità italiana?

Il lavoro mi porta via un sacco di tempo, quindi molto sinceramente la vivo più lavorativamente che personalmente. Forse il rapporto è più istituzionale che personale, anche perché ovviamente cerco di passare il maggior tempo possibile con mia moglie e i miei figli. Come ti dicevo è un po’ quasi una questione di combinazione, nel senso che gli amici che abbiamo attualmente qua, li abbiamo conosciuti magari a un’inaugurazione o a un evento della Camera di Commercio, o delle New York Italian Women, non so se conosci la signora Lo Stimolo, che ha questa associazione femminile in città. Per esempio a una piccola festicciola natalizia, abbiamo conosciuto questa coppia con la quale siamo ancora amici. La comunità la vivo in questo modo qua, cercando di stringere rapporti sia professionali, che poi potrebbero anche diventare personali.

E se parlassimo della comunità americana come la senti e percepisci?

Personalmente dal giorno 1 ho avuto sempre qualche difficoltà. Credo che abbiamo proprio un sistema di vita diverso: a noi piace vivere la casa, invitare gente se gli spazi te lo permettono, oppure andare fuori a cena. Con gli americani spesso la problematica sono i tempi, essendo un New York così grande, tu abiti in Queens, tu abiti a Astoria, io abito in New Jersey, tu abiti Downtown, non vai a casa, ti fai la doccia e torni. Quindi hai quasi l’impressione di dover prendere un appuntamento. Non è così spontaneo come. Poi noi italiani siamo anche più attivisti. Come ti dicevo, prima, c’è la New York Italian Women. In New Jersey, noi abbiamo il nostro gruppo “I Papà di Hoboken”, nel quale c’è il CFO di Piaggio, quello di Lego, ecc. Crei questo gruppo di 25 papà, così come c’è quello delle mamme, e ti vai a prendere una birra, andiamo a fare una partita a tennis, andiamo a giocare a calcetto. Ovviamente non tutti i giorni, però c’è questa voglia di scherzare nel gruppo WhatsApp, di parlare di moto, calcio. E funziona anche quando si hanno diversi hobby, l’’italiano è più alla ricerca dello stare insieme e di creare connessioni.

Tornando a Glasshouse, qual è la sfida più grande che ti è capitata in questa fase della tua carriera?

La sfida più grande, ancora attuale, è avere a che fare con questi grandi fondi americani e le loro aspettative. Io ho sempre avuto a che fare con proprietari, seduti lì, dentro il ristorante, a guardare, controllare, ecc. Avere a che fare con questi grandi investitori è una crescita per me esponenziale. Queste persone parlano un’altra lingua, e dover imparare il loro linguaggio, il loro approccio anche mentale, no? Qua lavoriamo milioni di ore e non sei mai contenti, no? Numeri, numeri, numeri, e devi entrare in quella mentalità. Questa è stata inizialmente la challenge più grande, quella di cambiare un po’ il tuo mindset. Perché non è solo ciò che si vede: succede tanto dietro le quinte, dove si movimentano e cambiano le sinergie all’interno dell’azienda. A volte ci sono da prendere decisioni scomode, o ci sono suggestioni o imposizioni, chiamiamole come vuoi, a gestire alcune cose in determinati momenti, quando magari tu non sei al 100% onboarding, ma come rappresentante del fondo devi per forza accettarlo e devi anche poi presentarlo al tuo team.

Una sorta di filtro e interfaccia…

Il mio lavoro principale, sai qual è? È quello di prendere tutto lo stress che arriva dall’alto, bloccarlo e riportarlo in maniera proattiva e positiva per motivare il team. Perché in fin dei conti il nostro team è la nostra faccia, sono loro a contatto con il pubblico. Quindi la loro motivazione, la loro felicità e convinzione rappresentano la nostra azienda. Io dico sempre al mio team sin da quando lavoravo nei ristoranti dicevo sempre che ci sono due cose importanti nel ristorante, il caffè e il conto. Perché sono le ultime due cose che la gente si ricorda. Mi raccomandavo sempre con i camerieri: il caffè deve essere perfetto, buonissimo, e il conto non può essere sbagliato, non può essere il conto dell’altro tavolo, non ci può essere “mi sono dimenticato questo, ho aggiunto questo”, perché è l’esperienza a pagarne le conseguenze. Noi non vendiamo eventi, vendiamo esperienze. Quindi da quando entri, il coatcheck, l’accoglienza, o quando te ne vai, se devi stare due ore in fila per prendere l’ascensore, è l’unica cosa che ti ricordi dell’esperienza.

Ci racconti anche un aneddoto che ti è rimasto nel cuore?

Abbiamo ospitato una celebrità, senza fare nomi, in uno dei vari eventi agli inizi, quando eravamo un po’ più giovincelli. Non so per quale ragione, nessuno ha riconosciuto, questa persona famosa arrivata alla porta. Abbiamo fatto il nostro lavoro, il team l’ha fatto aspettare, le porte non erano ancora aperte. Per fortuna non siamo arrivati al punto “non lo sa chi sono io”. Succede che poi a fine serata la persona che organizzava questo evento mi porta in una delle green room, come questa dove siamo adesso, e mi presenta la celebrity. Questa mi guarda e mi dice “tu sei quello che all’ingresso non mi ha fatto entrare subito, però l’evento è stato pazzesco, voglio fare la mia festa dei 50 anni in questa location, perché mi è piaciuto il vostro approccio hospitality.”. Quindi nonostante il momento di tensione, chiamiamolo così, questo cliente ogni anno dal 2021, il prossimo sarà il quarto anno, continua a fare il suo evento con top celebrity famosissime qui. E questo nonostante le tante offerte ricevute per andare a farlo in altri posti anche gratis. Ma il rapporto personale che si va a creare con questi clienti, strettamente personale, nemmeno i dollari possono intaccarlo. Ed è qui che io insisto e continuo a “stressare” il mio team: l’ospitalità è la cosa più importante. I nostri check, tutti i giovedì o venerdì quando veniamo pagati, non arrivano dai proprietari, dal nostro fondo, ma dalla felicità dei nostri clienti. Quindi la loro happiness è la nostra happiness.

Come trasferisci anche operativamente questa mission al tuo team?

Quando facciamo le nostre riunioni, parlando degli eventi della settimana successiva, una cosa che ho implementato è il riparlarne anche dal punto di vista della client experience: il cliente arriva, con Uber, a piedi, quello che succede, deve salire lì, deve andare lì, quindi facciamo step per step. Quello che avviene per un nuovo ospite per la prima volta qua e quello che avviene per chi ci è già stato. Per quello abbiamo creato una struttura, che sembra semplice, ma è veramente focalizzata, step per step. Partiamo dalle vendite, passando al contratto, poi al project manager che diventa, per tutto il pre-planning, il best friend del cliente. Anche perché qui gli eventi che riserviamo non sono per domani, ma sono prenotati adesso per sei, nove mesi, un anno. Quindi in tutto questo periodo c’è il pre-planning in mano al project manager. Solo quando siamo a ridosso dell’evento si passa all’operation team, che è quello che fa l’esecuzione, e questa è una facility 24/7. È diventata proprio una macchina super rodata.

Parlaci un po’ di com’è lavorare in GlassHouse…

È un lavoro che richiede impegno, ma noi cerchiamo anche di investire il più possibile sui nostri dipendenti. Quando c’è un momento di tranquillità, andiamo a farci il team building in escape room, oppure usiamo le nostre bellissime terrazze per fare un barbeque insieme, o magarii portiamo tutti a fare l’esperienza al summit. Cerchiamo di creare questo tipo di affiatamento, anche perché abbiamo gente che è con noi dal primo giorno, abbiamo veramente un turnover bassissimo. Magari si cambia il dipartimento, ma quella è una storia diversa. Il grosso, il nucleo rimane dentro con noi e ha possibilità di crescita. Il fatto che ci stiamo espandendo è un’opportunità davvero per tutte le risorse qui.

Per curiosità, come ti senti quando sei tu dall’altro lato e sei l’ospite di una cena o di un evento?

Malissimo, perché guardo tutto, mia moglie mi dice spesso “non ti porto più da nessuna parte” (ride di gusto, Ndr). Devo dire comunque che mi succedeva soprattutto quando lavoravo nella ristorazione. Andavamo al ristorante e chi era a tavola con me doveva ricordarmi di rilassarmi. Adesso è un po’ meglio, però ho sempre quell’occhio critico.

Sei a New York da tanto tempo e a volte, soprattutto ultimamente, si sentono in giro frasi come “eh ma New York non è più quella di una volta”. Tu cosa ci dici, c’è stato un cambiamento in peggio dal tuo punto di vista?

Ma guarda, magari vado controcorrente, io non mi lamento, e non lo faccio per due motivi. Il primo è personale, perché innanzitutto bisogna distinguere tra chi ha famiglia e chi non ha famiglia. È ovvio che, avendo famiglia e figli, dopo il lavoro, la tua vita la vivi in modo diverso. Io sono già in mezzo al caos tutti i giorni. Voglio più che altro stare tranquillo dopo il lavoro, quindi trovo la mia tranquillità altrove. Passando tempo con gli amici a casa e viaggiando. Ho trovato il mio paradiso ad Aruba, dove ho comprato anche una casa e dove andiamo appena si può.

E la seconda motivazione?

La seconda è più generale e si lega alle opportunità che ti offre la città. Vero, Manhattan è cambiata da quando sono arrivato io nove anni fa,  ma c’è stata anche una pandemia in mezzo che ha messo in ginocchio tutto e tutti. Ma il modo in cui si riparte a New York è impressionante. Io non credo ci sia altro un posto al mondo che offre le stesse opportunità. Però due cose: te le devi andare a cercare, non ti cadono addosso e non bussano alla porta di casa tua. Ci vuole tanto impegno e tanta volontà. Seconda cosa: non puoi stare qua a sopravvivere. Devi rimancerci se vuoi stare bene, lavorando e impegnandoti tanto. Lle nostre ferie non sono paragonabili alle ferie che avete voi in Italia, per dirne una. Però le opportunità che ci sono qui, se sei bravo a prenderle e ti presentano, ti possono far vivere una vita personale e professionale straordinaria.

Torneresti indietro in Italia?

Non credo, anche perché ora guardo ai miei figli, alle opportunità per loro qui a New York. Anche solo per la lingua. Cioè avere dei figli che parlano già due lingue, e a volte mio figlio mi corregge, quando parlo inglese. Io gli dico “sì, va bene, è uguale, hanno capito. Non ti preoccupare che se non hanno capiti faranno fiinta di capirmi, quindi…” (ride, Ndr).

Dove ti vedi da qui a cinque anni, quali sono i tuoi obiettivi?

Mi piacerebbe aprire una mia azienda o diventare partner in una esistente, magari proprio The Glasshouse. Perché l’attuale esperienza mi sta facendo imparare un sacco di cose e sento che sto andando nella direzione giusta per essere pronto a creare qualcosa di mio, magari anche in collaborazione con qualche realtà che esiste già. Mettere insomma la mia passione a disposizione di qualcosa che poi è veramente mio. Anche se, ripeto, in tutti i posti in cui ho lavorato e, anche qua, ho fatto mio il progetto. Mi fa ridere il fatto che talvolta, anche ieri sera è capitato, mentre cammino con le mani in tasca – ho questo vezzo – uno mi fa, “ah, lei è il proprietario?”. Vorrei comunque rimanere nello stesso settore, continuare a crescere in Glasshouse che è un progetto veramente bello e motivante, e magari viaggiare di più e non solo in between events..

E il tuo sogno personale nel cassetto?

Forse raggruppare tutti i miei amici più vicini e la mia famiglia e andare in un posto sperduto, magari ad Aruba – che non è sperduto però – e vivere con tutti i nostri figli e amici. Perché comunque in questi nove anni una delle cose che un po’ è mancata è la vicinanza della famiglia e degli amici più stretti. Mi piacerebbe poter recuperare questo aspetto, ovviamente il tempo non si recupera, però vediamo, magari in un futuro.

Per chiudere, qualche spunto e consiglio per chi ha un sogno americano da inseguire…

New York ti dà l’opportunità di fare il salto. Il salto. Devi saperlo fare il salto e saper atterrare sulle tue gambe. Posso però dire che noi italiani abbiamo una marcia in più. E questo può essere confermato guardando tantissimi italiani che sono a capo di grosse organizzazioni, qui a New York e nel resto degli USA. Il nostro stile è unico e funziona. C’è solo da trovare il punto giusto e il momento giusto per fare il salto.

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Marco Costante

Classe 1990, Marco G. Costante è autore, copywriter e ghostwriter tarantino. Storico per formazione accademica, marketer per deformazione professionale, è tra i fondatori de L’Olifante, collana di libri di approfondimento musicale, e scrive di musica, marketing e reputazione per i magazine SMMAG! e Reputation Review. Innamorato fin da bambino della cultura e degli sport a stelle e strisce, ha recentemente contribuito al saggio Against Stereotypes - The Real Reputation of Italian American di Davide Ippolito.

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