Antonella Questa: il teatro e la pedagogia che cambiano le cose

Dalla scena al dibattito pubblico, contro pedagogia nera e patriarcato

Attrice, autrice e regista, Antonella Questa porta in scena un teatro ironico e radicale che smonta stereotipi e interroga le radici della nostra educazione emotiva. In questa intervista racconta come arte e pedagogia possano diventare strumenti di cambiamento reale.

Come sei approdata a questo tipo di lettura della tua professione?

La mia cifra stilistica è politica, impegnata, ironica, femminista e fortemente allergica alle ingiustizie. In trentacinque anni di carriera ho fatto un po’di tutto, dall’improvvisazione teatrale alla tv: era bellissimo ed eccitante, ma nei primi anni Duemila ho iniziato a sentirmi stretta, non mi bastava più.

Nel 2005 ho fondato la mia compagnia e da lì ho potuto fare il teatro che mi assomiglia davvero: portare in scena storie tabù, che mettono a disagio, ma con un taglio ironico, che ci permette di sospendere il giudizio su di noi e sulle altre persone.

Pensi che nella rappresentazione femminile in scena si senta l’assenza di una mano autoriale femminile?

Il male gaze è ancora troppo presente nel cinema, in televisione e anche a teatro. È paradossale, perché la maggior parte del pubblico è composta da donne, ma le donne sono ancora soprattutto in platea, mentre sul palco vediamo perlopiù storie di uomini, raccontate, scritte e dirette da uomini.

Ogni tanto arrivano storie di donne, ma spesso anche lì la firma è maschile, in regia e in drammaturgia. Qualcosa sta cambiando, ma siamo lontane da uno spazio reale di riconoscimento del valore artistico che portiamo in scena.

Il sessismo lo vedi anche in etichette come “teatro al femminile”: è una sciocchezza. Nessuno parlerebbe di “teatro al maschile”. Gli uomini fanno “teatro”, punto. Io invece vengo infilata nella sezione “teatro in rosa”.

Da spettatrice, cosa non vorresti più vedere associato alla rappresentazione femminile?

I soliti stereotipi: la brava mamma, la personaggia “positiva” che non alza mai la voce, o magari si arrabbia ma poi perdona sempre, le figure femminili trattate solo come corpi sessualizzati.

Da spettatrice scelgo soprattutto teatro firmato da donne, anche quando in scena ci sono uomini, perché sento che su alcune tematiche universali lo sguardo femminile porta una forza, una complessità e un’originalità diverse.

In Italia pesa molto anche il fatto che le direzioni artistiche siano ancora in gran parte affidate agli uomini: questo si riflette su ciò che vediamo in scena.

C’è un modo per non banalizzare le tematiche femminili?

Per me le tematiche non sono mai banali se nascono da un’urgenza reale e vengono trattate con sincerità, prima sulla pagina e poi sul palco.

Ho fondato la mia compagnia proprio perché avevo urgenza di fare quel tipo di teatro: non ero più felice nelle produzioni altrui. Credo che tutte desideriamo vedere raccontata una storia che ci assomiglia, che ci aiuta a dare un nome a ciò che ci fa stare male e a immaginare come potremmo stare meglio.

Quanta consapevolezza c’è nel mondo della recitazione del fatto che il corpo femminile è anche uno strumento di lavoro? Viene rispettato in quanto tale come mezzo espressivo?

Il corpo, in scena, racconta molto più delle parole: è meno didascalico, porta in superficie l’emozione, il sentire della personaggia.

Mi è capitato però di lavorare con attrici preoccupate soprattutto di essere “belle”, di come il corpo sarebbe apparso nel costume di scena. In quel momento non è più teatro: è una sfilata. Lo sguardo si sposta su di sé, sul proprio aspetto, e si perde il rapporto con le colleghe e i colleghi, con la storia, con la magia dello spettacolo.

Per me, in scena, il corpo è a servizio della personaggia: se deve essere scomodo, goffo, ingrassato, spettinato, lo si fa per coerenza con il racconto. Sono questi dettagli drammaturgici e fisici che fanno la forza della storia e, di conseguenza, anche la qualità della nostra interpretazione.

Negli ultimi anni ti sei concentrata sull’aspetto educativo delle più piccole e dei più piccoli, in special modo sulla cosiddetta pedagogia nera. Di cosa si tratta?

Lavorando a Infanzia Felice ho incontrato spesso una rabbia trattenuta che attraversava vari rapporti educativi: tra allieve e insegnanti, tra insegnanti e genitori, ecc. Mi sono chiesta da dove arrivasse.

Nel mio percorso di ricerca mi sono imbattuta in Pedagogia nera, il prezioso libro di Katharina Rutschky, un saggio che raccoglie estratti dei principali testi sull’educazione di bambine e bambini, dalla fine del Seicento ai primi del Novecento. Ne emerge un modello educativo fondato sulla violenza, fisica e psicologica, messa in atto per ottenere bambine e bambini obbedienti.

Leggendolo ti accorgi che, in modi diversi, siamo cresciute tutte e tutti dentro questa cultura. Nei casi più estremi produce personalità distruttive o autodistruttive; nel mezzo ci siamo noi, con le nostre dipendenze più “accettabili”: fumo, alcol, shopping compulsivo, gioco d’azzardo, lavoro senza limiti, cellulare sempre in mano, dipendenza affettiva…

La pedagogia nera è, in sostanza, un sistema che interrompe la relazione con noi stessə, con ciò che proviamo. Ad esempio tu, bambina o bambino, hai paura, hai fame, hai bisogno di una coccola, piangi, urli, ma l’adulto decide che stai facendo solo un capriccio e ti manda il messaggio che quello che senti “non va bene”. Per essere amata, ti abitui a trattenere, incluso il senso di ingiustizia, che diventa rabbia compressa. Se non si acquisisce consapevolezza su questo meccanismo perverso, si finisce per reiterarlo di generazione in generazione. È infatti l’ex bambinə che trovandosi di fronte ad una situazione che ha vissuto e subito, di fronte a un bambino che piange pensa “io non sono stato ascoltatə, perché dovrei farlo con te?” E ripete la violenza.

Per questo Infanzia Felice è una fiaba per adultə: ho capito che bambine, bambini e adolescenti non sono “il problema”. Il problema siamo noi, ex bambine ed ex bambini che non siamo statə educatə all’ascolto delle nostre emozioni e a poterle esprimere, soprattutto se siamo maschi.

La pedagogia nera è infatti quello che chiamo: il braccio armato del patriarcato. Chiede ai maschi di essere forti, duri, conquistatori, di non piangere mai, e così prepara il terreno per sessismo, misoginia e violenza “ordinaria”.

Con lo spettacolo cerco di far emergere questa consapevolezza e di ricordare che nella nostra infanzia si gioca una parte decisiva di quello che siamo.

Ci sono delle attrici o delle autrici che per te sono un’ispirazione o a cui pensi quando scrivi qualcosa che vuoi portare in scena?

Ce ne sono tantissime. La prima che mi viene in mente è Giuliana Musso, per fare un nome su tutte. Poi Marta Cuscunà, Michela Andreozzi, ma anche la regista Roberta Torre… sono artiste molto diverse tra loro, ma hanno in comune il mettersi davvero in gioco, il portare in scena ciò che hanno dentro senza edulcorare. Sono lavori che guardo e riguardo, che mi nutrono.

Per fortuna siamo in molte a praticare questo tipo di teatro: è una compagnia preziosa, che aiuta a sentirsi meno sole.

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