Riccardo Balbo: portare il design italiano nel mondo, tra complessità e trasversalità

Con il primo chapter a New York, lo IED apre le porte al mercato americano puntando su innovazione formativa e connessione con la comunità globale

Riccardo Balbo è il Chief Academic Officer e Direttore Accademico del Gruppo IED e Presidente della Fondazione Francesco Morelli, ente proprietario dell’Istituto Europeo di Design. Architetto e Dottore di ricerca in Teoria e costruzione dell’architettura, vanta un’esperienza internazionale nella guida di IED Torino fino al 2017 e, tra il 2008 e il 2013, nella direzione dei Master in Urban Design and Regeneration e in Digital Architectural Design presso la School of the Built Environment (SOBE) della University of Salford nel Regno Unito, contribuendo alla fondazione del gruppo di ricerca MIND – Mediated Intelligence in Design. La sua attività si concentra su rigenerazione urbana, sistemi complessi, cultura del progetto e innovazione formativa, con una visione fortemente orientata alla transdisciplinarità e alla responsabilità sociale del design. Lo abbiamo intervistato per IlNewyorkese.

Quali sono le ragioni dietro la decisione dello IED di espandersi negli USA?

L’idea nasce da una riflessione che io e Alan Brivio portiamo avanti da tempo. Lo IED, che l’anno prossimo compirà sessant’anni, si è sempre espanso aprendo sedi in città creative e centrali nel panorama culturale. Ogni scuola è diversa, ma tutte sono nate dentro una visione tradizionale del concetto di istituto, quella del nostro fondatore.Nel frattempo, però, è emersa una ricchezza che non avevamo mai attivato davvero: la comunità degli ex studenti, suddivisa in chapter e piccole comunità diffuse in molti paesi. Non si tratta di un valore commerciale, ma di un sistema vivo che trasmette e riceve segnali tra la scuola e il territorio. Abbiamo iniziato a usare una metafora diplomatica per raccontare questa idea: le sedi come ambasciate, i chapter come consolati, e poi dei “consoli onorari” che sono gli alumni attivi sul territorio. Da qui la volontà di creare un primo chapter a New York. L’obiettivo non è aprire un avamposto commerciale, ma raccontare una scuola di design trasversale, basata sul rapporto tra pensiero e pratica e sulla relazione tra designer e società.

Qual è il messaggio principale che volete trasmettere agli studenti e ai partner americani?

Vogliamo far conoscere una scuola che, pur essendo profondamente radicata in Italia, ha una presenza internazionale in tre Paesi diversi, privata ma gestita da una fondazione no-profit, e che interpreta il design in maniera autenticamente trasversale. La trasversalità per noi non è una parola d’ordine né una strategia di marketing: è un impegno concreto, un lavoro quotidiano che richiede disciplina, costanza e una certa dose di fatica. È il risultato di un approccio che cerca di superare i confini tradizionali delle singole discipline, creando connessioni tra mondi diversi e stimolando la capacità di guardare il design da prospettive multiple. Questo sforzo non è solo intellettuale: è anche pratico, perché permette agli studenti e ai docenti di affrontare la complessità del mondo reale, dove le soluzioni non si trovano mai all’interno di compartimenti stagni. Senza questa apertura, una scuola rischierebbe di irrigidirsi, concentrandosi su un’unica disciplina fino a perdere elasticità e capacità di innovare. Al contrario, affrontare la complessità ci tiene vivi, stimola la curiosità, alimenta la creatività e ci consente di rimanere al passo con i tempi, anticipando nuove sfide e opportunità nel campo del design

Il modello europeo può diventare competitivo rispetto al sistema universitario americano e ai suoi costi?

Le università americane sono eccellenti, tra le migliori al mondo, ma hanno raggiunto costi talmente elevati da essere sempre più poco accessibili. Paradossalmente, oggi molti americani non possono più permettersele. Il mercato si autoregola: se non si può più stare qui, ci si sposta altrove.

L’Europa – con tutte le sue differenze – ha mantenuto una forte attenzione alle humanities e alle soft skills. Questo permette agli studenti di design di diventare figure versatili: professionisti competenti ma anche individui capaci di adattarsi, ragionare, mettere in dubbio. È una qualità che consente di lavorare in settori diversi, dalla consulenza al farmaceutico, fino al bancario. La capacità di ripensare le cose è una forza che l’Europa non ha mai perso.

Esistono differenze nei trend tra giovani americani ed europei per quanto riguarda le scelte formative?

È difficile distinguere nettamente i trend: ormai sono globalizzati. Ma una cosa interessante sta accadendo. Dopo anni di entusiasmo verso tutto ciò che è digitale e dematerializzato, sta tornando una forte attrazione verso la materia, verso il fare.Si vedono hype inattesi attorno ai corsi di gioiello, al lavoro con la lima, al craft. Al contrario, molti corsi di product design – trasformati negli anni in “strategy”, “systemic”, “immersive experience” – oggi si trovano con meno contenuto materiale su cui lavorare. Per questo stiamo riflettendo molto su materiali, impatto e responsabilità. Gli studenti non chiedono più solo cosa faranno, ma perché lo faranno e quale destino avrà ciò che progettano. Quando questa consapevolezza si attiva, gli studenti decollano nei loro percorsi e questa è una leva potentissima.

Qual è la forza del Made in Italy nell’immaginario formativo globale?

Il Made in Italy funziona sempre, ma oggi rappresenta un sistema molto più complesso della semplice etichetta. È fatto di relazioni tra distretti produttivi, progettisti, scuole, artigiani. È un ecosistema difficile da replicare altrove. In Italia il design si insegna in quattro modi diversi – Accademie di Belle Arti, Politecnici, Università e ISIA – e soprattutto nelle Accademie resiste una dimensione fondamentale: la Techné, l’unione tra tecnica e anima. Il design non si impara in astratto: va fatto. Bisogna lavorare, sperimentare, sbagliare. In quel processo non insegni solo una tecnica, ma inevitabilmente anche una parte di te stesso. Questo intreccio tra progetto, processo e identità è ciò che caratterizza davvero il modello italiano.

Immagine di Elide Vincenti

Elide Vincenti

Laureata con lode in Letteratura Comparata e Arti dello Spettacolo presso la Sapienza di Roma, ha lavorato come Project Manager presso Italy-America Chamber of Commerce Southeast di Miami. Vive a New York, dove frequenta il corso di Master in Critical Journalism e Creative Publishing presso l’Università di New York, Parsons - The New School.

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