Il volto di Lucia Annibali è diventato, suo malgrado, uno dei simboli più potenti della violenza maschile contro le donne in Italia. Nel 2013 la sua vita è stata travolta da un’aggressione con l’acido orchestrata dal suo ex compagno: un atto di brutalità estrema che avrebbe potuto spezzarla. Invece, da quel trauma è nato un percorso di rinascita, impegno civile e testimonianza che l’ha trasformata in una voce autorevole nel dibattito pubblico.
Annibali, infatti, è un’ex deputata impegnata nella costruzione di politiche contro la violenza di genere, un’autrice capace di raccontare senza retorica il dolore e la rinascita, e soprattutto una donna che ha scelto la libertà anche quando sembrava impossibile riconquistarla.
In occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, l’abbiamo incontrata per ripercorrere le tappe del suo impegno, conoscere le sfumature del suo viaggio fatto di determinazione, sostegno e condivisione ma soprattutto di quel coraggio profondo che nasce quando si decide di non lasciarsi definire dalla violenza subita.
Dopo l’aggressione che ha cambiato radicalmente la sua vita, lei è riuscita a trasformare un atto di odio in un impegno civile. Qual è stato il punto di svolta interiore che le ha permesso di passare da vittima a protagonista della sua rinascita?
Avevo iniziato a interrogarmi molto. Vivere un’esperienza di violenza ti costringe a un lavoro interiore profondo: per capire, per ritrovare forza, per recuperare quell’energia vitale che la violenza risucchia. In ospedale, al Centro grandi ustionati, appena arrivata ho compreso davvero che ciò che mi era accaduto non era colpa mia e non poteva esserlo.
Mi sono fatta mille domande: potevo fare di più? Potevo evitare? Chiederselo è un passaggio quasi inevitabile. Ma riappacificarsi con sé stesse e con ciò che si è vissuto è essenziale, ed è qualcosa che ogni donna in questa situazione dovrebbe poter fare. Anche grazie al lavoro con Giusi Fasano, una riflessione condivisa attraverso il Corriere della Sera, ho capito quanto fosse importante dirlo ad alta voce e poi a tutte le donne: la violenza non è colpa delle donne.
Partendo dalla consapevolezza ho provato a condividere la mia esperienza, poi le circostanze: il primo libro scritto insieme a Giusi Fasano, mi hanno aperto a nuovi incontri, importanti che mi hanno portata a impegnarmi prima sul piano istituzionale e poi politico sul tema della violenza. Per trasformare il personale in un impegno concreto bisogna studiare, approfondire, costruire strumenti. È stato un percorso naturale: prima condividere delle riflessioni, poi trasformare tutto in un impegno vero e proprio.
Nel suo cammino di resilienza, quali sono stati gli strumenti personali, relazionali o istituzionali che l’hanno aiutata a ricostruirsi?
Innanzitutto il carattere: ho scoperto in me una forza e una determinazione che non conoscevo, ma anche la capacità di conservare leggerezza e ironia, nonostante il momento drammatico. Tenere insieme corpo e animo è stato decisivo per affrontare un percorso di ricostruzione lungo e impegnativo.
Poi ho avuto la fortuna di essere seguita da medici straordinari. Il mio chirurgo mi ha sempre trattata come una persona normale: una donna segnata sì, ma comunque una donna intera. Questo mi ha aiutata a vivere la mia condizione con naturalezza, e a esprimermi con autenticità.
E poi la famiglia: i miei genitori, i miei affetti, le amiche, i cugini e gli zii. Essere circondata, protetta, capita: questo ti salva. E al tempo stesso io stessa mi sono presa cura dei miei, ho cercato di trasmettere loro serenità. Non volevo che la mia condizione diventasse un dramma continuo.
Ho avuto accanto le persone giuste per la mia personalità, per il mio modo di reagire. Mi hanno arricchita come donna.
Lei è stata parlamentare e ha partecipato direttamente alla definizione di politiche contro la violenza di genere. Cosa ha capito, “da dentro”, delle difficoltà del sistema nel proteggere le donne? Quali sono oggi i miglioramenti più urgenti?
La difficoltà principale è la mancanza di un approfondimento reale. Non basta parlare di violenza maschile sulle donne o varare misure simboliche: serve conoscenza concreta, asciutta, non retorica.
In Parlamento ho visto molta ritualità: il giorno del voto del Codice Rosso tutti con la sciarpa rossa, la camicetta rossa, la spilla rossa poi però l’approccio a questo tema era molto brutale, tipo leggere in aula nomi e dettagli crudi delle donne uccise. Per la mia sensibilità era qualcosa di troppo, quasi una spettacolarizzazione del dolore.
Si tende ad aumentare continuamente le pene, ma questo non risponde ai bisogni delle donne. Una donna che subisce violenza non cerca vendetta e non chiede pene smisurate: spesso deve denunciare un marito o un compagno e se la pena è troppo alta, può perfino sentirsi scoraggiata dal farlo. Le pene poi non possono nascere dalla cronaca del momento: diventano sproporzionate.
Per esempio, il reato di deformazione dell’aspetto – che è quello che ho subito io – introdotto con il Codice Rosso sull’onda emotiva del mio caso, non solo non mi rese entusiasta ma poi dovette essere rivisto dalla Corte costituzionale.
È molto più facile che la reazione a un fatto di cronaca, di violenza di genere, si focalizzi sull’aumento di pena o sulla creazione di un nuovo reato e non su un investimento di risorse in progetti di prevenzione per esempio, o sostegno.
L’atto più importante della lotta alla violenza non è tanto il Codice Rosso, ma la ratifica della Convenzione di Istanbul, avvenuta in Italia nel 2013, che definisce una strategia complessiva e trasversale basata su prevenzione, protezione e punizione.
Il punto cruciale è sempre lo stesso: prevenzione e educazione. Già nel 2016, quando ero al Dipartimento Pari Opportunità, lavoravamo con il Ministero dell’Istruzione su progetti per le scuole. Oggi è ancora più urgente raggiungere i giovani.
I sondaggi mostrano che molti ragazzi considerano normali schiaffi, gelosia, controlli. I centri antiviolenza lo ripetono: bisogna essere nelle scuole, perché i ragazzi vogliono capire, chiedere, raccontarsi. Perché non dare loro questa possibilità?
La sua storia è diventata un simbolo di coraggio per molte donne. C’è qualcosa che vuole dire a chi vive oggi una situazione di violenza e teme di non poterne uscire?
Prima di tutto: la violenza non è colpa vostra. Non sentitevi responsabili, non provate vergogna. Non siete sole.
Aprirsi, condividere ciò che si vive è un passaggio doloroso, faticoso, coraggioso ma è essenziale. Chiedere aiuto è difficile e può essere pericoloso, ma restare in un ambiente violento lo è ancora di più, anche quando ci sono dei figli.
Poi è fondamentale che chi accoglie una richiesta di aiuto sia davvero in grado di farlo, altrimenti si rischia di esporre la donna a un pericolo maggiore. Serve sostegno concreto, non solo sulla carta.
Se potesse parlare alla Lucia di dieci anni fa, ferita, disorientata, ancora dentro il trauma, cosa le direbbe?
Le direi che è stata brava, che ha affrontato momenti durissimi: il ritorno a casa dopo l’ospedale, il dolore alla pelle, i trattamenti che ti debilitano. Piano piano ho riacquistato la vista, ma la cura richiede sacrifici enormi. E poi l’impatto con gli sguardi degli altri: pesante, faticoso.
Ancora oggi ho difficoltà, devo fare ancora delle cure. Ma guardando indietro, mi chiedo come quella ragazza – la me di dodici anni fa – abbia fatto a reggere tutto questo percorso con tanta determinazione, con equilibrio.
Le direi che ciò che conta di più è lei stessa, la sua vita. E che ci saranno giorni belli: come quelli in cui passeggio felice, incontro persone gentili e riesco a godere di piccole cose, ordinarie, normali ma che ti riempiono di gioia.
Sono grata e orgogliosa di poter dare oggi un contributo alle donne e ai ragazzi, come persona che ha prima di tutto vissuto il tema della violenza ma poi lo ha approfondito e studiato per combatterlo.
Il suo aggressore è stato condannato. Che rapporto ha oggi con il perdono, la rabbia e la giustizia? Sono concetti che cambiano nel tempo?
Ciò che più interessa, me e chi ha subito violenza, è sentirsi al sicuro e poter vivere serenamente. Quando qualcuno ti fa del male fisico così grave, la prima esigenza è la sicurezza.
Quanto al perdono, ci sono gesti oggettivamente imperdonabili. Non ritengo necessario perdonare chi li ha compiuti: è più importante concentrarsi su se stessi, imparare a perdonare se stessi e la vita – anche quando ci arrabbiamo con la vita – e allo stesso tempo essere grati per ciò che ci offre dopo.
La gratitudine, per me, vale tanto, anche più del perdono.
Sul piano della giustizia, nel mio caso è stata rapida ed equilibrata, grazie al lavoro attento degli inquirenti e alla mia collaborazione. Importante ricordare che la giustizia non deve diventare uno strumento di vendetta: non è il suo scopo. Va maneggiata con competenza, senza emotività, altrimenti si creano false aspettative proprio verso chi soffre.
Lei ha incontrato molte donne ancora intrappolate nella violenza. C’è uno sguardo, una frase, una storia che l’ha segnata più delle altre?
Il periodo che mi ha insegnato di più è stato quello in ospedale, nel reparto grandi ustionati. È lì che ho maturato una forza interiore nuova: una pazienza quasi obbligata, perché gli ustionati devono ricostruire la propria vita un giorno alla volta.
Ho capito quanto sia importante non allontanarsi da sé, non farsi condizionare dagli altri. La cura di sé è prima di tutto nelle proprie mani.
E poi, ancora una volta, la fortuna di aver incontrato le persone giuste al momento giusto che mi hanno fatto sentire sempre adeguata anche nei passaggi più complessi. Ho imparato che bisogna saper aspettare: non affannarsi per dimostrare qualcosa, accogliere persino l’inadeguatezza degli altri nella quotidianità, aspettare che i momenti “no” passino.
Qual è il messaggio più urgente da ribadire a società, istituzioni – e anche agli uomini. perché la violenza contro le donne non sia trattata come casi isolati ma come responsabilità collettiva?
Bisogna ancora evolvere il pensiero culturale su questo tema, soprattutto sul ruolo delle donne e delle donne che subiscono violenza. Ancora oggi sentiamo frasi automatiche come “se l’è cercata”, “era vestita così”, “era tardi”: sono giudizi radicati e profondamente sbagliati.
Non possiamo confondere le responsabilità. La violenza contro le donne è un fenomeno strutturale. Bisogna smettere di giustificare l’uomo come fragile, incapace di affrontare l’indipendenza femminile. C’è un problema profondo sulla capacità di alcuni uomini di stare in relazione con una donna autonoma, che lavora, che ha una sua vita sociale, che dice “no”.
C’è poi un enorme lavoro da fare sul linguaggio e sulla formazione. Purtroppo, troppe soluzioni istituzionali sono ancora inadeguate perché costruite su un pensiero inadeguato e troppo spesso la responsabilità viene spostata sulle donne: dovevano fare di più, dovevano accorgersi prima, dovevano educare le figlie.
Non è così. E finché non cambieremo questo sguardo collettivo, la violenza continuerà a essere raccontata come una sequenza di episodi, invece che come il problema culturale che è.