Ambra Battilana Gutierrez: coraggio, moda e lotta per i diritti dei fashion workers

Modella e attivista, Ambra Battilana Gutierrez trasforma la sua esperienza personale in impegno collettivo: con Fashion in Progress

Ambra Battilana Gutierrez è una modella italo-filippina e attivista per i diritti dei lavoratori della moda. Nota a livello internazionale per aver denunciato molestie nel settore, ha co-fondato Fashion in Progress, un’organizzazione no-profit che tutela modelle, fotografi e freelance, promuovendo contratti equi e sicurezza sul lavoro. Ha collaborato con la Model Alliance di New York e contribuito a iniziative come il Fashion Workers Act, impegnandosi per un’industria della moda più giusta e trasparente. L’abbiamo intervistata per IINewyorkese. 

Ambra, la tua esperienza come modella e il tuo coraggio nel denunciare molestie ti hanno reso una figura simbolica. Come è cambiato il tuo rapporto con il mondo della moda da quando hai iniziato il tuo impegno attivista?

Da quando ho iniziato a espormi e a parlare apertamente di abusi e ingiustizie nel settore, il mio rapporto con la moda è cambiato radicalmente. All’inizio mi sentivo quasi un’outsider, come se il mio coraggio mi avesse messo in una posizione scomoda. Poi, con il tempo, ho capito che proprio quella “scomodità” era la mia forza. Oggi vivo questo mondo con molta più consapevolezza: non lo subisco più, anzi lo guardo negli occhi, lo sfido quando serve e cerco di migliorarlo. Continuo ad amarlo, ma non in modo ingenuo; lo amo abbastanza da volerlo vedere più giusto.

In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, quanto pensi che l’industria della moda abbia la responsabilità di proteggere le modelle non solo da abusi fisici o sessuali, ma anche dallo sfruttamento economico e contrattuale?

L’industria della moda ha una responsabilità enorme, molto più grande di quanto ammetta. La violenza non è solo fisica o sessuale: esiste anche una violenza economica, professionale, psicologica. Una modella può non essere toccata con un dito, ma essere comunque completamente vulnerabile perché non ha un contratto chiaro, non è pagata in modo trasparente, non ha un riferimento legale o non lavora in un ambiente sicuro. Proteggere significa creare condizioni di lavoro dignitose, controllare chi entra in contatto con le modelle, eliminare le zone grigie dove gli abusi proliferano. La moda ormai non può più nascondersi dietro al glamour: deve assumersi le proprie responsabilità ed intervenire attivamente e non solo su ciò che stiamo vedendo, anche in questi giorni, in merito alle note vicende di sfruttamento del lavoro e caporalato.

Hai co-fondato “Fashion in Progress” a Milano per tutelare i cosiddetti “fashion workers” Qual è stata la motivazione più profonda che ti ha spinto a dare vita a questa associazione?

Da anni avvertivo crescere dentro di me l’esigenza – e anche la responsabilità – di impegnarmi affinché certe situazioni non si ripetano, e per offrire un sostegno concreto a chi verrà dopo. Ho vissuto in prima persona cosa significa sentirsi sola, non creduta, non tutelata. E quando continuavo a ricevere messaggi di modelle, fotografi e freelance che mi raccontavano storie simili, ho capito che non potevo limitarmi a denunciare: dovevo creare uno strumento concreto. Questo percorso mi ha portata prima a supportare Model Alliance di New York, e poi a entrare nel board dell’organizzazione, contribuendo anche a risultati significativi, fino alla recente approvazione del Fashion Workers Act.  Le mie radici, però, e il desiderio di incidere anche nel Paese dal quale sono stata costretta ad andar via, mi hanno spinta a guardare da vicino ciò che accade e sta accadendo in Italia, in particolare a Milano. È qui che ho incontrato l’avvocato Alessio Di Pietro, che da tempo segue da vicino le questioni legali del mondo della moda, e dopo un lungo periodo di confronto su come garantire una tutela reale a chi lavora nel settore, abbiamo deciso di unire le nostre diverse competenze e dare vita a Fashion in Progress: un ente no profit con finalità di utilità sociale dedicato espressamente alla promozione e alla tutela dei diritti, anche fondamentali, dei cosiddetti fashion workers.

Il vostro progetto è supportato dallo studio legale LawP, che recentemente ha effettuato un’ analisi giuridica del model management evidenziando come il settore necessita di una urgente regolamentazione, denunciando di fatto un “vuoto normativo”. Puoi spiegare cosa significa questo vuoto e quali misure concrete proponete attraverso Fashion in Progress?

Sì, lo studio legale Lawp, ci sta supportando pro-bono in diversi progetti in corso. Recentemente – con l’Avv. Maurizio Marullo e lo stesso Avv. Alessio Di Pietro – lo studio legale ha condotto per Fashion in Progress un’analisi giuridica approfondita del sistema del model management, che rappresenta per l’associazione un punto di partenza fondamentale per comprendere come e dove intervenire. Dall’analisi emerge come questo settore presenti una struttura anomala e una evidente carenza regolatoria. Le agenzie, che assumono il ruolo di mandataria, pur avendo l’obbligo di agire nell’esclusivo (o prevalente) interesse dei modelli, operano contemporaneamente anche come intermediari, conciliando le esigenze dei propri mandanti con le logiche di mercato dei brand o comunque dei clienti finali. Ne deriva – secondo l’analisi svolta dallo studio legale – per le società di model management un duplice obbligo di fedeltà contrattuale, che di fatto crea uno squilibrio a svantaggio della parte contrattualmente più debole.  Uno dei principali scopi sociali dell’ente è quindi approfondire il tessuto giuridico e la prassi contrattuale del settore, con l’obiettivo a medio-lungo termine di intervenire in modo innovativo ed efficace sul piano normativo. Nel breve termine, nell’ambito di un programma di sensibilizzazione già avviato, stiamo invece valutando modalità di intervento immediato, tra cui la proposta di un codice etico, al quale gli operatori della moda saranno invitati ad aderire, si confida numerosi.

Molti fashion workers lavorano con contratti sbilanciati o addirittura senza contratto. Quali sono le principali difficoltà che emergono quando provate ad aiutare queste persone attraverso la vostra associazione?

La prima difficoltà riscontrata è l’inconsapevolezza della propria posizione giuridica: molti lavoratori della moda non conoscono i diritti di cui sono titolari, perché manca un momento formativo e perché spesso accettano contratti predisposti unilateralmente, senza margine di trattativa. La seconda difficoltà è la paura: paura di parlare, di denunciare e quindi di rischiare di perdere opportunità di lavoro. Con Fashion in Progress stiamo dando voce a chi da solo non ce l’avrebbe, esponendoci noi al posto loro e portando le istanze per conto di coloro che ne hanno bisogno davanti a tutti gli interlocutori del settore, difendendo concretamente i diritti della categoria.

In che modo Fashion in Progress lavora per sensibilizzare non solo i lavoratori ma anche i brand, le agenzie e le istituzioni, affinché riconoscano diritti e dignità a chi opera nella moda?

Noi lavoriamo su un doppio livello: da un lato aiutiamo i fashion workers a orientarsi, a comprendere come tutelarsi, a riconoscere le situazioni di rischio, a richiedere contratti chiari e bilanciati e a far valere i propri diritti; dall’altro – rappresentando la categoria – dialoghiamo con brand e agenzie di moda dimostrando che la tutela non è un ostacolo ai loro business, ma un investimento nella qualità del lavoro e nella moda stessa. Organizziamo quindi incontri, tavoli di lavoro con le istituzioni e collaborazioni con esperti del settore, tutti guidati da un unico obiettivo: promuovere maggiore tutela. Il Comune di Milano ha ad esempio recentemente supportato una delle nostre iniziative – volta nel particolare a sensibilizzare il settore sull’esigenza di una normativa ispirata anche al Fashion Workers Act Newyorkese – riconoscendone l’importanza per il ruolo della città nella moda internazionale, un riconoscimento di cui siamo molto orgogliosi.

Guardando al futuro, quali cambiamenti legislativi o di cultura dell’industria riterresti più urgenti per garantire una maggiore sicurezza, equità e parità di potere per le donne nella moda?

Nella moda, come in altri settori, il cambiamento più urgente è culturale. Le donne nella moda devono essere rispettate ad ogni livello. Dal punto di vista legislativo, serve un sistema più equo e mirato, con controlli efficaci, sanzioni per chi sfrutta o abusa, ambienti di lavoro sicuri e protocolli chiari per segnalare molestie o discriminazioni senza timore di ritorsioni. La moda può essere bellissima, ma solo se è un posto sicuro per chi ci lavora. Come ricorda il saggio Il profumo della bellezza. Leonardo da Vinci tra moda e stile di Maria Pirulli, pubblicato recentemente per i novant’anni dell’Istituto Marangoni, il lavoro di Leonardo, con la sua sorprendente modernità, si manifesta oggi in ambiti centrali come moda e beauty. Leonardo difatti non è solo un simbolo del genio italiano, ma anche un precursore di un approccio formativo integrato e multidisciplinare. Proprio per questo, l’autrice ha voluto dedicare una copia del libro a Fashion in Progress, con la citazione di Leonardo: “Non si volta chi a stella è fisso”, a sottolineare l’importanza di mantenere una rotta chiara nel promuovere formazione, tutela e rispetto per chi lavora nella moda. Un invito che ci guida ogni giorno e che intendiamo seguire con determinazione.

Immagine di Elide Vincenti

Elide Vincenti

Laureata con lode in Letteratura Comparata e Arti dello Spettacolo presso la Sapienza di Roma, ha lavorato come Project Manager presso Italy-America Chamber of Commerce Southeast di Miami. Vive a New York, dove frequenta il corso di Master in Critical Journalism e Creative Publishing presso l’Università di New York, Parsons - The New School.

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