Raccontare la violenza di genere con rigore e rispetto: la lezione di Vincenzo Quaratino

Il giornalista Vincenzo Quaratino che ha seguito alcuni dei casi più emblematici di violenza nel nostro Paese, riflette sull’evoluzione del linguaggio e delle responsabilità nel narrare la violenza di genere

In un Paese in cui il tema della violenza di genere è al centro del dibattito pubblico, il ruolo dei media nel raccontare, analizzare e dare un nome ai fenomeni sociali è cruciale. Le parole, i titoli, le scelte narrative incidono sulla percezione collettiva e sul rispetto dovuto alle vittime. Per questo, in occasione del 25 novembre, abbiamo intervistato Vincenzo Quaratino – giornalista a lungo capo delle cronache dell’ANSA e ora presidente del Consiglio Nazionale di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti – testimone privilegiato dell’evoluzione del giornalismo di cronaca negli ultimi decenni. 

Dalla trasformazione del linguaggio alla nascita di nuove sensibilità professionali, fino all’impatto delle norme come il Codice Rosso, Vincenzo Quaratino offre uno sguardo esperto su come è cambiato, e come dovrebbe ancora cambiare, il racconto della violenza contro le donne in Italia.

Vincenzo Quaratino

Negli anni lei ha seguito alcune delle vicende di cronaca più delicate del Paese. C’è un caso, di violenza o maltrattamento di genere, che l’ha colpita in particolare e perché?

Cito l’omicidio di Elisa Claps, la ragazza scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993, il cui cadavere fu ritrovato 17 anni dopo – il 17 marzo 2010 – nel sottotetto della Chiesa della Trinità, nel pieno centro storico del capoluogo. Seguii giorno e notte quella vicenda, la soluzione era a due passi, ma, nonostante l’impegno degli investigatori, ci vollero, appunto, 17 lunghissimi anni per arrivare alla verità e all’individuazione del responsabile. Quel delitto segnò profondamente l’opinione pubblica ed è tuttora presente nella memoria collettiva ben oltre i confini della città di Potenza, sintesi drammatica di violenza di genere e di disagio psicologico per un verso, di omertà e di superficialità per altro verso.

Un caso recente invece?

Come non citare la dolorosissima vicenda di Giulia Cecchettin, diventata emblema della violenza di genere tra adolescenti. Credo che quel delitto, nella sua drammaticità, abbia, almeno un po’, smosso le coscienze di ragazzi e ragazze contro il pericolo di considerare “normali” comportamenti violenti all’interno di coppie di adolescenti e non solo.   

Giulia Cecchettin

Come è cambiato il modo di raccontare la violenza, in particolare quella contro le donne, nelle redazioni giornalistiche rispetto ai suoi inizi, sia in termini di linguaggio che di approccio editoriale?

Mi sento di dire che prima la cronaca era rigorosa, ma anche più fredda: l’emotività era legata solo ai grandi delitti. Il racconto era dettato quasi esclusivamente dal contenuto degli atti giudiziari e dalle dichiarazioni di magistrati e avvocati. Oggi non è più così: l’atto giudiziario è solo il punto di partenza: in tv, a partire dal delitto di Cogne, sono arrivati i plastici, la giornalista o il giornalista allarga il proprio raggio d’azione alle relazioni della vittima e dell’assassino, all’ambito territoriale, alla ricerca di elementi sempre nuovi per sostenere o smentire una tesi.

Anche il linguaggio è cambiato e, se mi si passa il termine, è diventato più “rispettoso” del mondo femminile: ieri il marito che uccideva la moglie commetteva un “delitto passionale” e quasi sempre, nei primi momenti, veniva chiamata in causa la gelosia; oggi quell’azione si qualifica come “femminicidio” e si chiama in causa la “violenza di genere”. Non dimentichiamo poi che le investigazioni scientifiche – vent’anni fa appena accennate – hanno fatto nell’ultimo decennio passi da gigante: si pensi ai tanti casi che sono stati risolti attraverso la ricerca e la comparazione del Dna. Quanto all’approccio editoriale, vale il vecchio detto: “bad news is good news”. La cronaca nera “tira”: lo share in tv sale, i click sui siti aumentano, i giornali, in tempi di crisi, vendono qualche copia in più. E allora spazio alla cronaca nera.

L’evoluzione del quadro normativo, dal reato di stalking allintroduzione del Codice Rosso, ha influito sulla narrazione giornalistica? Le nuove norme hanno portato il o la giornalista ad avere maggiore attenzione, sensibilità e responsabilità nel trattare casi di violenza di genere?

É maturata nelle giornaliste e nei giornalisti la responsabilità di evitare banalizzazioni e di sottolineare la gravità di comportamenti persecutori e violenti. Vorrei sottolineare che l’evoluzione del quadro normativo non ha riguardato solo l’ambito penale, ma anche quello deontologico. L’articolo 13 del nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti, in vigore dal primo giugno scorso, ha sancito l’obbligo del rispetto delle differenze di genere, proprio con riferimento ai casi di “femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e di fatti di cronaca che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale”.

La norma stabilisce che il giornalista deve “evitare stereotipi di genere, espressioni, immagini e comportamenti lesivi della dignità della persona”. Inoltre, non deve rendere “identificabili, neppure indirettamente, le vittime di atti di violenza, salvo esplicita e motivata richiesta delle vittime stesse, purché maggiorenni. Deve utilizzare un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, puntando all’essenzialità dell’informazione e alla continenza, ed evitando spettacolarizzazioni. Sempre nello stesso articolo 13 è affermato “il divieto di usare espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto o colpevolizzino la vittima”. Il giornalista, infine, deve curare una cronaca rispettosa anche dei familiari e delle altre persone coinvolte nei fatti. Una serie di principi normativi, dunque, che danno rilievo proprio al rispetto delle differenze di genere.

A volte, le cronache hanno raccontato le donne vittime di violenza anche attraverso cliché o toni inadeguati. Quali errori del passato riconosce e quali consapevolezze considera oggi imprescindibili nel descrivere le donne coinvolte in fatti di violenza?

É assolutamente necessario che il giornalismo metta da parte stereotipi mutuati dal linguaggio comune, che suonano come vere e proprie offese. Ad esempio, “non fare la femminuccia” rivolto ad un uomo che mostra una sensibilità marcata; oppure “guidi davvero bene per essere una donna”, credendo di fare un complimento, mentre ci si può limitare alla prima parte della frase, senza sottolineare la presunta incapacità delle altre donne. Il giornalista, inoltre, deve avere consapevolezza profonda dei termini che usa, evitando le espressioni che sottendo a una vera e proprio violenza.

In materia di femminicidi, ad esempio, sono ancora frequenti i titoli dove si dice che l’assassino, al momento di uccidere, è stato “colto da un raputs di follia”: affermazione che, per un verso, non trova riscontro in psichiatria, giacché in nessun manuale esiste la parola “raptus”; per altro verso sottende a un racconto per cui l’assassino era buono, poi è arrivato un fulmine a ciel sereno e ha ucciso. Sempre a proposito di femminicidi e violenza di genere: “l’ha uccisa perché voleva andare al lavoro”; oppure “movente del delitto le pretese economiche di lei” (e non le questioni economiche tra loro). E poi lo stupro “dettato da un irrefrenabile impulso sessuale”; oppure “avevano bevuto alcol e fumato hashish insieme e poi l’ha stuprata”, come dire che una donna che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile; per non parlare infine di “violentata perché lei lo ha fatto ingelosire”, che nasconde un concetto arcaico di proprietà dell’uomo sulla donna.

Con social e breaking news, la velocità sembra essere diventata la priorità assoluta. Come si concilia oggi la pressione a pubblicare subito con la necessità di rispettare la dignità delle vittime e verificare le informazioni, soprattutto nei casi di femminicidio?

La tempestività è uno dei parametri da tenere in considerazione, ma in nome della tempestività non possono essere sacrificati altri valori fondamentali, a cominciare dalla verità dei fatti e dal rispetto della dignità delle persone. La cronaca deve essere sempre equilibrata, rispettosa e non sensazionalistica.

Immagine di Cecilia Gaudenzi

Cecilia Gaudenzi

Giornalista professionista e storyteller. È nata a Roma nel 1991 “sotto il segno dei pesci”, dove si è laureata con lode in Scienze Politiche, all’Università di Roma Tre e dove vive stabilmente. Musica, cinema, letteratura, politica, serie tv, podcast, reportage e terzo settore. Il vizio di scrivere, di tutto e su tutto ce l’ha fin da bambina. Le piace conoscere, capire, raccontare e soprattutto, fare domande. Crede nello scambio di idee e nella contaminazione. Ha girato l'Africa per dare voce all'impegno di donne e uomini che dedicano la loro vita agli altri. La sua parola preferita è resilienza.

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