Alessandro Cattelan: “New York mi ha preso il cuore, ma ti chiede l’anima”

Nel corso della sua carriera, Alessandro Cattelan ci ha abituati a racconti brillanti, ironici e profondi. La sua passione per New York è ormai cosa nota: ci ha scritto una guida, ci ha comprato casa, ci torna appena può. Ma com’è nato questo amore? E come si concilia con l’Italia, con Tortona, con Milano? Gliel’abbiamo chiesto in un’intervista che parte da uno skyline e finisce in compagnia di Gesù, tra le strade di Brooklyn.

Alessandro, ci racconti la tua prima volta a New York e perché rimane il momento più bello vissuto nella Grande Mela?

Era il 2003, poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Io e i miei amici finalmente avevamo la possibilità economica di viaggiare a New York e così partiamo. Aspettavamo quel momento da tanto, era uno di quei viaggi che “devi fare”, un classico. Quando ho visitato la città per la prima volta era tutto nuovo, ovviamente, ma anche vicino, è stato come riconoscere un posto anche se non ci ero mai stato. Una sensazione strana, familiare. Lo skyline l’avevo visto mille volte in foto, film, videoclip. Ma vederlo dal vivo… un’altra cosa. Una grande emozione che ne fa il mio momento più bello a New York.

Come è avvenuto questo innamoramento? A distanza, grazie ai film, alla musica o ai libri, prima di vederla dal vivo o è stato un amore a sorpresa e a prima vista?

Diciamo che New York la conosci prima ancora di esserci stato. Vai perché senti che devi andarci. Non è come buttarti in un posto a caso. Era già presente nella mia immaginazione grazie alla musica – i miei rapper preferiti, Jay-Z e Notorious B.I.G., venivano da lì – e poi i film, le serie, i racconti. La cosa sorprendente è che quando ci arrivi, ti accorgi che non è finzione: è tutto vero. È esattamente come te la sei immaginata, solo molto più intensa.

E quando sei lì, non ti manca l’Italia? Hai nostalgia di casa?

No, anzi, mi piace proprio stare lì, cerco sempre di autoconvincermi di essere uno del posto.  Io sono un tipo abitudinario e ogni giorno mi scelgo una routine: tipo andare nello stesso pub sotto casa, appena atterro, a prendere una birra. È il mio modo di sentirmi “dentro” la città.

Hai legami con la comunità italiana di New York?

Sì, certo. A Brooklyn conosco i ragazzi di Growing Up Italian, o di Salotto, che hanno ospitato la presentazione della mia Casa Editrice e con cui porto avanti diversi progetti. E poi c’è Antica Pesa, il ristorante romano che ha una seconda sede proprio a Brooklyn. Sì, direi che i legami ci sono, eccome.

Frequenti i tuoi amici italiani quando sei lì?

Se capita, sì, ma non è una cosa che cerco. Quando sono a New York voglio proprio staccare da quello che faccio ogni giorno. Anche perché c’è sempre il rischio che si finisca a parlare di lavoro, ecco. Poi certo, capita di incrociare qualcuno… ma preferisco immergermi in un altro mondo.

C’è un luogo o qualcosa che, secondo te, rappresenta meglio l’italianità a New York?

Williamsburg. Lì la comunità italiana è piccola ma molto presente. Le minoranze italiane ci tengono molto a far sentire la loro presenza. Un esempio: riempiono le strade per celebrare le tipiche feste di paese italiane, ci sono le bandiere tricolori, santi, Madonne… c’è proprio quell’atmosfera familiare e un po’ kitsch. E poi Little Italy: il negozio di decorazioni natalizie aperto anche ad agosto è imperdibile, una specie di caos natalizio permanente.

Cosa manca, secondo te, agli italiani che vivono a New York?

Forse il calcio. Ma per il resto, non manca nulla. Anche il cibo ormai si trova ovunque, e pure fatto bene.

E come pensi venga percepita l’italianità lì?

Un po’ stereotipata, stile I Soprano. I film hanno lasciato un’impronta. L’italo-americano è visto come chiassoso, gesticolante… un cliché, insomma. Però da turista ti senti accolto. E c’è molto fascino nei confronti dell’Italia: tutti si inventano di avere un parente italiano, anche se poi non sanno nemmeno bene dove sia l’Italia sulla mappa.

Che ne pensi del “sogno americano”, esiste?

Secondo me sì. Io l’ho visto anche di recente, quando ho incontrato alcuni editori da Il Salotto. C’è una grande proattività: tutti ti offrono un’idea, un contatto, un appoggio. Anche se non c’entri direttamente con loro. Ma è anche una città che ti trita: per farcela devi essere strutturato, avere energia, fame. Ti dà tanto, ma ti chiede altrettanto.

Vedi un futuro lì, per te e la tua famiglia?

Mi piacerebbe, anche se forse ormai sono un po’ troppo vecchio (ride). New York è perfetta tra i 20 e i 40 anni. Ti dà una spinta pazzesca, ma pretende molto. Però sì, mi piacerebbe viverci per periodi più lunghi.

Essere felici a New York significa…? E a Milano, o a Tortona?

A New York significa avere tanti soldi! È una città molto cara. Puoi andarci col sogno, ma poi ti devi dare da fare. Devi riuscire a fare quello che ti piace, senza sentirti con l’acqua alla gola. A Milano – o a Tortona – c’è un’altra felicità: è serenità, stabilità. Per me, però, la felicità non dipende dalla città in cui mi trovo, ma da un equilibrio interno.

Una canzone, un film, un libro che per te raccontano New York?

Una canzone è Fairytale of New York, quella di Natale. È poetica, dolce, sporca e ruvida allo stesso tempo. Un film è Quei bravi ragazzi, ma anche Manhattan. Un libro, Le mille luci di New York… e Schiavi di New York.

Parliamo della tua casa editrice, Accento. Come è nata l’idea di fondarla e come sta andando? 

Sta andando bene, siamo molto orgogliosi. L’idea è nata durante il Covid: volevo fare qualcosa che non fosse al 100% legato a me. Io sono solo una parte del progetto, non il centro. In catalogo abbiamo molti titoli ambientati a New York, e il pubblico li apprezza.

La missione è quella di pubblicare esordienti. Qual è lo stato dell’arte, è possibile vivere di libri in Italia?

Difficile. Vivere solo di scrittura è complicato. Serve avere un altro lavoro, e la scrittura spesso ne diventa una parte parallela. Ma la vetrina giusta può aiutare, e noi cerchiamo di offrirla.

Sei sempre stato appassionato di libri?

Assolutamente no. A scuola li detestavo. Poi, a Milano, ho iniziato a frequentare persone nuove, molto colte, e lì ho capito che avevo delle lacune. Visto che con musica e film me la cavavo bene, coi libri ho deciso di mettermi in pari.

Libro preferito? E uno che vorresti non aver ancora letto?

American Psycho, senza dubbio. Quello che vorrei non aver ancora letto? Delitto e castigo, per poterlo riscoprire da zero.

Ultima domanda, torniamo su New York. Hai fatto da guida ad amici e parenti ma, se potessi scegliere una persona – del presente o del passato – da portare con te a scoprire la città… chi sarebbe?

Gesù. Lo porterei in giro per New York a vedere le sue foto ovunque, nei negozi, nelle case, per strada… sarebbe bello mostrargli quanto è idolatrato, quanto affetto gli dimostrano. E poi chissà cosa direbbe lui, sulla città.

Immagine di Cecilia Gaudenzi

Cecilia Gaudenzi

Giornalista professionista e storyteller. È nata a Roma nel 1991 “sotto il segno dei pesci”, dove si è laureata con lode in Scienze Politiche, all’Università di Roma Tre e dove vive stabilmente. Musica, cinema, letteratura, politica, serie tv, podcast, reportage e terzo settore. Il vizio di scrivere, di tutto e su tutto ce l’ha fin da bambina. Le piace conoscere, capire, raccontare e soprattutto, fare domande. Crede nello scambio di idee e nella contaminazione. Ha girato l'Africa per dare voce all'impegno di donne e uomini che dedicano la loro vita agli altri. La sua parola preferita è resilienza.

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