Come (non) suona l’inclusione: il gender gap nell’industria musicale

Un settore che continua a raccontarsi inclusivo mentre dietro al mixer restano quasi solo uomini, tra dati che cambiano lentamente, ruoli tecnici ancora chiusi e tentativi di spostare un equilibrio che da decenni sembra immobile

«Per le donne il vero ostacolo è dover scegliere tra famiglia e carriera, non gli uomini». È una frase di Sylvia Massy, una delle produttrici e sound engineer più influenti degli ultimi trent’anni – in curriculum Tool, System of a Down, Johnny Cash, Prince – che racconta di avere “centinaia di figli”, ma solo in senso metaforico: gli artisti con cui ha lavorato.

La sua storia è perfetta per parlare di gender gap nella musica perché è l’eccezione che illumina la regola. Massy è entrata e rimasta ai piani alti di un ambiente ancora oggi quasi interamente maschile, soprattutto dietro al vetro dello studio. Il suo approccio visionario con registrazioni in stazioni della metro abbandonate, telefoni a disco come microfoni, portare le band in luoghi acusticamente “sbagliati” – l’ha resa una figura di culto. Ma proprio perché è un nome che tutti citano, vale la pena chiedersi: quante donne come lei esistono, numeri alla mano?

Uno studio dell’USC Annenberg Inclusion Initiative, che da anni analizza le classifiche statunitensi, stima che dal 2012 al 2022 soltanto il 2,8% dei credits di produzione dei brani più popolari sia attribuito a donne. Significa che per ogni produttrice ci sono più di trenta colleghi uomini. Va un po’ meglio sul fronte degli artisti (circa un terzo sono donne) e degli autori, ma la stanza dei bottoni resta chiusa a doppia mandata.

I dati più recenti dicono che qualche passo avanti c’è stato: in alcune annate le produttrici arrivano al 5–6%, ma restano in netta minoranza. Se guardiamo ai ruoli tecnici – fonici, mixing e mastering engineer – le percentuali crollano di nuovo verso l’1–2%.

L’Italia non fa eccezione. Una ricerca dal titolo eloquente, No Country for Women. Women Working in the Italian Music Industry, fotografa un settore descritto dalle stesse intervistate come un “boys’ club”, dove i contatti informali contano quanto – se non più – delle competenze. Analizzando le Top 50 italiane di vari anni, la quota di artiste donne scende in alcuni casi all’8%. Secondo dati presentati alla Milano Music Week, solo il 14,1% degli artisti nelle classifiche ufficiali è di sesso femminile. 

Se passiamo dal palco al backstage, il quadro è ancora più netto: produttori, fonici, tecnici di palco, A&R, Tour Manager, sono in larga parte uomini. Le donne si concentrano in ruoli più visibili ma meno decisionali – ufficio stampa, promozione, conduzione – oppure vengono incasellate nella figura della “frontwoman”, mentre dietro i mixer continuano ad apparire volti maschili.

È interessante mettere questi dati accanto alla narrazione di Sylvia Massy. Lei racconta di non essersi mai sentita discriminata in modo diretto. Il vero bivio, nella sua esperienza, arriva attorno ai 35 anni, quando una carriera iniziata a vent’anni comincia finalmente a dare frutti. Proprio lì, dice, molte donne si chiedono: voglio una famiglia o voglio una carriera? Nel suo caso, ha scelto la seconda.

Studi come Women in the Mix, promosso dalla Recording Academy e da Berklee, confermano che la tensione tra maternità e lavoro è reale: circa metà delle intervistate dichiara di aver rinunciato ad avere figli, o di averne avuti meno, per non compromettere la propria carriera musicale. Ma lo stesso report mostra anche l’altra faccia della medaglia: oltre il 70% racconta di aver vissuto discriminazioni o trattamenti diversi a causa del genere, spesso in contesti dove le decisioni si prendono lontano dai riflettori, tra cene, festival, aftershow.

Non è quindi solo “la biologia” a pesare, ma un intreccio di fattori: orari impossibili, precariato, mancanza di tutele, stereotipi che vedono la tecnologia come terreno maschile e la cura delle relazioni come compito femminile. In questo quadro, una donna che sceglie la carriera si trova spesso a correre su una pista più ripida di quella dei colleghi.

Qualcosa però si muove. Programmi come Keychange, che chiede a festival e istituzioni musicali di impegnarsi verso una rappresentanza paritaria nei cartelloni, e iniziative come She Is The Music o Women in the Mix, che costruiscono reti di mentori e database di professioniste, stanno provando ad allargare il tavolo. In Italia, realtà come la Fondazione Donne in Musica lavorano da decenni per dare visibilità a compositrici e creatrici.

Sono segnali importanti, ma non bastano da soli. I numeri, per ora, dicono che il cambiamento è lento, soprattutto sui ruoli tecnici e decisionali. E qui torna utile la lezione di Sylvia Massy: trattare lo studio non come un laboratorio neutro, ma come uno spazio dove decidere chi entra, chi impara, chi può sperimentare.Massy ama ripetere che in studio bisogna “fare cose strane”. Forse la vera rivoluzione, oggi, è considerare “strano” un mondo in cui il 95% di chi registra, mixa e produce è ancora uomo, e “normale” un futuro in cui una ragazza che mette le mani sul mixer non sia più un’eccezione da celebrare, ma una presenza scontata. Quel giorno, il suono della musica non cambierà solo per tecnologia o moda, ma perché sarà passato tra più mani, più sguardi, più vite diverse.

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