Nel Mezzogiorno la questione occupazionale femminile non è una voce a margine delle statistiche: è un nodo strutturale che attraversa storie, famiglie, bilanci, scelte quotidiane. Lo si vede nei numeri, che parlano di tassi di occupazione più bassi rispetto al resto d’Italia, contratti precari, part-time non scelti. Ma lo si percepisce soprattutto nella vita reale delle donne, che qui più che altrove devono moltiplicare lo sforzo per conquistare ciò che altrove è considerato normale: un lavoro stabile, una contribuzione regolare, un reddito proprio.
In Italia il gender pay gap si attesta ancora intorno al 12%, ma nel Sud si allarga di fatto, perché si innesta su meno servizi, meno opportunità, meno infrastrutture sociali. E nella traiettoria delle carriere femminili pesa come un macigno un dato che conosciamo fin troppo bene: una donna su cinque lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Non perché lo desideri, ma perché il sistema non regge: asili insufficienti, orari inconciliabili, modelli culturali che ancora assegnano alle donne la responsabilità primaria della cura.
Secondo UN Women, le italiane dedicano quasi il triplo del tempo al lavoro domestico rispetto agli uomini. Nel Mezzogiorno questo divario diventa routine quotidiana, un copione che si ripete e che incide sulla possibilità di formarsi, specializzarsi, crescere professionalmente. Ed è in questo scenario che si innesta la forma più silenziosa di disparità: la violenza economica. Quella che non si impone con il controllo diretto, ma si insinua nei contratti fragili, nelle interruzioni di carriera, nel reddito che non basta e nella dipendenza finanziaria che viene scambiata per protezione. Per molte donne del Sud, l’indipendenza economica non è solo una questione di denaro: è la condizione minima per sentirsi parte attiva della propria vita. È la possibilità di scegliere, di dire “posso”, di non chiedere il permesso. Una libertà che non si conquista con gli slogan, ma con opportunità reali di occupazione e crescita.
Ed è qui che alcune esperienze del territorio offrono un segnale importante di cambiamento. Teleperformance, ad esempio, rappresenta una delle realtà più significative in Puglia: su 1.700 dipendenti, 1.200 sono donne, pari al 75% dell’organico. Non si tratta solo di un dato numerico, ma di un impatto sociale. Per molte lavoratrici Teleperformance è stato il primo contratto stabile, il primo stipendio regolare, il primo conto corrente personale. In alcuni casi, la prima volta in cui una donna ha potuto decidere autonomamente come spendere il proprio denaro. Una conquista intima, profonda, che cambia il perimetro della libertà. Questo modello dimostra che, quando le aziende investono in flessibilità, formazione, qualità del lavoro e pari opportunità, gli effetti non si limitano ai bilanci: coinvolgono le famiglie, la comunità, l’economia locale. Perché dove le donne lavorano, il territorio cresce. Dove le donne hanno reddito, si riduce il rischio di povertà. Dove le donne possono autodeterminarsi, arretra la violenza economica.

Il Mezzogiorno ha bisogno di questo: di politiche che sostengano l’occupazione femminile, di servizi che alleggeriscano il peso della cura, di imprese che credano nella partecipazione delle donne come leva di sviluppo. Non è un tema ideologico, né una battaglia di nicchia. È una questione di cittadinanza.
La verità è semplice: non può esserci parità senza autonomia economica. E non può esserci autonomia senza lavoro dignitoso, stabile, accessibile. Riconoscere il valore delle donne del Sud, sostenere i loro percorsi professionali, offrire strumenti perché possano restare e crescere qui significa costruire una società più equa, più solida e più moderna. Perché la libertà, quella vera, non si misura nelle parole. Si misura nella possibilità di dire, senza esitazioni: “Il mio futuro lo decido io.”