Flotilla a Gaza, Cecilia Strada: “Una vittoria della società civile, non della politica”

Cecilia Strada racconta la rotta della Flotilla e la sfida di portare la solidarietà dentro le istituzioni europee

La Global Sumud Flotilla, spedizione partita nelle scorse settimane per portare aiuti umanitari a Gaza, è stata quasi completamente intercettata dalle autorità israeliane durante il viaggio. Tutti i 42 vascelli sono stati fermati in acque internazionali e decine di attivisti, tra cui parlamentari e operatori umanitari, sono stati trasferiti al porto di Ashdod per espulsioni o procedimenti legali. L’intercettazione della Flotilla ha suscitato proteste in diverse città italiane, tra cui Roma, Napoli, Milano e Torino, con migliaia di persone che hanno manifestato contro l’azione israeliana.

Un primo gruppo di attivisti italiani che avevano preso parte alla missione, tra cui i parlamentari Arturo Scotto, Annalisa Corrado, Benedetta Scuderi e Marco Croatti, è rientrato in Italia, dopo giorni di fermo e interrogatori.

Parallelamente, da Washington è arrivato un appello di Donald Trump a fermare i bombardamenti sulla Striscia di Gaza. L’interruzione delle ostilità segna un fragile punto di svolta in una crisi che, per mesi, ha scosso la coscienza internazionale.

In questo scenario in evoluzione, le parole di Cecilia Strada, eurodeputata ed ex presidente di Emergency, risuonano con particolare forza. La sua riflessione intreccia l’impegno umanitario e quello politico, e invita a interrogarsi sul significato della solidarietà oggi: quando la società civile decide di agire là dove la politica tace.

Dopo anni in prima linea con Emergency, l’organizzazione fondata da tuo padre Gino Strada, sei passata alla politica europea. Che cosa ti ha spinto a intraprendere questo percorso e che continuità vedi con l’eredità di tuo padre?

Di mio padre e di mia madre, direi. E di tutte le persone che hanno costruito Emergency, perché è stato un progetto collettivo: persone normali che, insieme, riescono a fare cose straordinarie che nessuno da solo riuscirebbe a realizzare. Per anni, nei miei incontri pubblici e nelle conferenze, raccontavo quello che stavamo facendo: curare chi non poteva curarsi, soccorrere chi rischiava la vita. Ma lo facevamo perché la politica non aveva fatto la sua parte.

Dopo tanti anni da attivista e operatrice umanitaria, ho cominciato a chiedermi se ci fosse un modo per aumentare l’impatto del mio lavoro. Questa riflessione è nata in mare, durante le missioni di soccorso con la Rescue People. Salvavamo decine di persone, ma tornati a terra vedevamo che la politica condannava a morte i prossimi. Ero stanca di mettere cerotti sulle fratture.

Poi Elly Schlein mi ha proposto di valutare un impegno politico diretto. Ho riflettuto e ho deciso di accettare.

La continuità con l’esperienza precedente è totale: continuo a lottare contro le disuguaglianze, per il diritto alla salute, alla vita, alla pace, per il diritto internazionale e per i diritti delle persone migranti. Combatto le stesse battaglie, solo in un luogo diverso, dentro le istituzioni, dove credo sia urgente difendere i valori fondanti dell’Unione Europea, oggi messi a rischio da chi vuole ridurre diritti e libertà.

Stare in mare era più gratificante, perché vedevi subito il risultato delle tue azioni. Qui il lavoro passa attraverso negoziazioni lente e spesso frustranti. Ma non è un motivo per tirarsi indietro: è proprio per questo che serve esserci.

Quali insegnamenti pratici porti dalla tua esperienza umanitaria nel lavoro politico?

Credo di avere un grande vantaggio rispetto a molti colleghi che si sono occupati solo di politica: io ho visto con i miei occhi le conseguenze delle scelte politiche sulla pelle delle persone.

Conosco l’odore degli ospedali di guerra, so cosa fa una mina antipersona, so cosa significa una politica migratoria disumana. Ho toccato le cicatrici, consolato le donne sopravvissute ai lager libici, sentito la benzina e l’acqua salata sui barconi alla deriva. Tutto questo mi dà una bussola morale chiara: so cosa è accettabile e cosa non lo è.

Per me il compromesso ha un limite: quando porta a risultati che conosco, che ho visto, e che non sono più tollerabili. Forse questo mi rende una “rompipalle”, ma spero che mi renda anche una buona politica.

Hai criticato più volte la risposta dell’UE alla crisi di Gaza. Quali azioni concrete e immediate dovrebbe intraprendere l’Unione Europea oggi?

L’UE deve usare davvero gli strumenti che ha a disposizione: sospendere l’Accordo di Associazione UE-Israele finché non verrà garantito il rispetto dei diritti umani, imporre un embargo sulle armi, in entrambe le direzioni, e sospendere ogni forma di cooperazione economica o tecnologica che possa alimentare la violenza.

Serve interrompere i rapporti commerciali con le colonie e bloccare i fondi europei destinati a Israele, compresi quelli legati ai programmi di ricerca come Horizon. Tutto questo dovrebbe accompagnarsi alla richiesta del rispetto del diritto internazionale, allo smantellamento delle colonie e al ripristino della legalità in Cisgiordania.

Cosa rappresenta per te e per il movimento pacifista la Flotilla?

La Flotilla è stata un gesto di popolo, un’iniziativa civile di enorme valore simbolico. È la dimostrazione che, di fronte all’inazione dei governi, la società civile sa ancora organizzarsi per affermare i principi di umanità e solidarietà. Sono molto orgogliosa degli amici e delle colleghe che hanno preso parte alla missione, tra cui Annalisa Corrado, della mia stessa delegazione. Io non ho potuto salpare per motivi personali, ma sarei andata.

Guardando al futuro, quale messaggio di speranza o di responsabilità vorresti arrivasse da te, oggi eurodeputata, a chi ti ha conosciuta come attivista?

Sono qui e faccio del mio meglio in un contesto difficilissimo. Ma va fatto, perché è giusto.
Martin Luther King diceva che “la fede è salire la scala quando non vedi neanche il primo gradino”: e questa è la scala che dobbiamo continuare a salire, anche quando sembra impossibile.

Mi preoccupa il rischio che tante persone perdano fiducia nella politica, vedendo governi che negano diritti ai migranti, criminalizzano chi manifesta, o restano complici delle guerre. Ma è proprio ora che dobbiamo crederci di più. Se alle ultime elezioni europee più persone avessero creduto nella possibilità di cambiare le cose, oggi il Parlamento e il Consiglio avrebbero una composizione diversa, e forse alcune decisioni sarebbero già state prese per fermare i massacri.

La politica non è solo delle istituzioni: è di chi sceglie di partecipare. C’è chi ha scelta e chi non ce l’ha. Chi ha la possibilità di scegliere ha anche la responsabilità di farlo bene.

Quando ho deciso di candidarmi ho ripensato a un ragazzo che avevo salvato da un naufragio. Mi disse: “Non mi ringraziare, perché io non avevo scelta. Tu sì”.

Ecco, credo che ognuno di noi, se ha una scelta, debba usarla per fare la cosa giusta. Come diceva qualcun altro: fai ciò che devi, accada quel che può.

Immagine di Francesca Bini

Francesca Bini

Giornalista di cultura e spettacolo, ricercatrice in ambito letterario e artistico, e curatrice di mostre. Laureata in Lettere Moderne, ha conseguito un Ph.D. in Letterature Comparate presso la LMU Munich e un Master in Italian Studies a Stanford. Si occupa di arte, cinema e libri

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