Luca Di Pietro è il fondatore di Tarallucci e Vino, una realtà che dal 2001 porta l’autenticità italiana nel cuore di New York. Originario di Nereto, in Abruzzo, si trasferisce nella Grande Mela nel 1994. Dopo un’esperienza in una nota azienda di caffè, sceglie la strada imprenditoriale e apre il primo locale, presto diventato punto di riferimento per la comunità. Oggi Tarallucci e Vino conta quattro sedi, con una quinta in arrivo, e continua a fondarsi su tre valori chiave: qualità, autenticità e comunità. Lo abbiamo intervistato per il NewYorkese.
“Aprire a New York è stata una sfida personale: volevo creare un luogo dove l’Italia si sentisse vicina, anche a migliaia di chilometri di distanza”
Cosa ti ha convinto a lanciare un progetto come Tarallucci e Vino a New York?
Non c’è stata una vera ricerca di mercato, ho fatto leva soprattutto sulla mia esperienza personale. Come tanti italiani all’estero mi mancavano alcune cose con cui ero cresciuto, prodotti e momenti che per noi sono naturali ma qui non esistevano. Frequentavo numerosi ristoranti e, piano piano, ho individuato un gap nel mercato, che fosse nella qualità, nell’artigianalità o semplicemente nell’offerta di prodotti italiani poco conosciuti. La mia ricerca di mercato era in realtà una riflessione su me stesso e sulla mia esperienza: come tanti altri italiani all’estero, mi mancavano quegli elementi della nostra cultura che consideriamo naturali. Ho pensato che, offrendo un prodotto di alta qualità, sarebbe sicuramente andata bene. Certo, l’imprenditoria richiede un pizzico di incoscienza, ma è bello mettersi alla prova. Non c’era una ricerca di mercato formale, se non il fatto che conoscevo molti ristoranti e caffetterie che offrivano prodotti di qualità inferiore rispetto a quanto avrei potuto offrire io.
Il nome “Tarallucci e Vino” evoca proprio quel senso di familiarità…
Sì. In Italia dire “finire a tarallucci e vino” significa chiudere una giornata o anche una discussione intorno a un tavolo, con un bicchiere e qualcosa di buono da mangiare. È un modo di ritrovarsi e abbassare le difese. A New York volevo creare proprio questo: un luogo che non fosse solo un locale, ma anche un punto di riferimento, quasi come il bar sotto casa in cui sai che troverai qualcuno da salutare. Anche il nome richiama semplicità, convivialità e un senso di comunità: un luogo dove gli italiani all’estero possano incontrarsi, ritrovarsi e condividere momenti. Il cibo e il bere ci fanno fermare, riflettere e godere della compagnia degli altri.
Il primo locale ha aperto poco prima di un evento storico che ha segnato la città, quali sono state le sfide?
A luglio 2001, sei settimane prima dell’11 settembre. Da allora, abbiamo visto tutte le fasi e le crisi di New York, e lentamente il progetto si è trasformato in un vero e proprio percorso imprenditoriale. Oggi Tarallucci e Vino ha quattro sedi e stiamo aprendo una quinta sulla 42esima. La sfida principale è stata crescere senza perdere autenticità e qualità. Il mio standard personale è sempre stato elevato: nei miei locali voglio mangiare come in Italia, e se la qualità scende, intervengo subito. La coerenza e l’onestà sono fondamentali: il cliente percepisce immediatamente ciò che è autentico e ciò che non lo è.
Qual è il segreto per far funzionare un concept italiano all’estero, oggi?
Restare autentici. Collaboriamo con artigiani, alcuni in Abruzzo, per produrre piatti fatti a mano, unici e di alta qualità. L’onestà e la cura nel prodotto fanno tornare i clienti: il cibo parla da sé, e anche se il marketing cambia, ciò che conta è offrire un’esperienza vera.
Il rischio è sempre quello di diventare un mero progetto imprenditoriale, perdendo l’anima. Io invece voglio continuare a entrare nei miei locali e mangiare bene. Sono il mio cliente più esigente: se non convince me, non può convincere nessuno. Tarallucci e Vino è il luogo dove gli italiani all’estero possono sentirsi a casa: come in Italia, ci si incontra, si scambiano due chiacchiere e ci si gode un momento di convivialità. L’esperienza personale, la cura per il prodotto e l’autenticità restano al centro di tutto: la nostra italianità è un valore da preservare e condividere, anche fuori dall’Italia.
Durante la pandemia sei stato tra i promotori del progetto “Feed the Frontlines NYC”. Com’è nato?
A metà marzo 2020, quando il governatore ha imposto la chiusura del servizio indoor nei ristoranti, una mia amica di Toronto mi ha chiesto di preparare pasti da distribuire agli operatori sanitari in prima linea. Così, il 19 marzo, abbiamo consegnato i primi 40 pasti: infermieri e medici avevano lo sguardo terrorizzato, e quell’esperienza mi ha fatto capire quanto fosse drammatica la situazione. Da lì abbiamo aperto un sito, raccolto donazioni e in pochi giorni arrivarono 25 mila dollari. Con l’aiuto della mia famiglia e di amici, abbiamo creato un’iniziativa che ha coinvolto circa 50 ristoranti, distribuendo oltre 250.000 pasti e aiutando sia chi lavorava con noi sia la comunità. È stata un’esperienza forte, che mi ha tenuto sano in un momento difficile e ha creato una vera rete solidale.
Hai recentemente aperto una pizzeria ispirata allo stile romano…
Sì, è un progetto nuovo ma legato alla mia storia. In Abruzzo, vicino al Lazio, ero abituato alla pizza al taglio, croccante, che qui chiamano “Sicilian” anche se non lo è. Con Alessandro, il nostro chef romano che già si occupava di pane e pasticceria, abbiamo aperto “La Pizza by Tarallucci e Vino” sulla 18th Street, accanto a Union Square. Nasce dal desiderio di offrire un pezzo di Italia mancante nella nostra offerta: la pizza al taglio romana, croccante e autentica. La risposta dei clienti è stata molto positiva.
Guardando al futuro, qual è la direzione?
Continuare a essere autentici. Più mi allontano dall’Italia e più sento il bisogno di restare fedele alle origini. La nostra forza sta nell’accoglienza e nel modo di far sentire bene le persone. È qualcosa che non tutti hanno, ma per noi italiani è naturale. Spero di continuare a trasmetterlo sempre, sia per i clienti di Tarallucci e Vino che nelle persone che ci lavorano.