Dal suo studio a Boston, dove vive e lavora, Francesco Rizzo Marullo segue da vicino gli sviluppi delle politiche economiche americane, e in particolare l’ombra lunga dei dazi Usa annunciati da Donald Trump lo scorso 2 aprile, poi congelati ma pronti a scattare se entro il 9 luglio non verrà raggiunto un nuovo accordo.
Avvocato Marullo, qual è lo scenario attuale in questo contesto di incertezza?
Siamo in una fase di sospensione totale. I dazi annunciati da Trump lo scorso 2 aprile, con quella famosa tabella che ha fatto il giro del mondo, al momento sono congelati. Tuttavia, se entro il 9 luglio non si raggiungerà un accordo, verranno reintrodotti. È fondamentale farsi trovare pronti.
In che modo si potrebbe affrontare questa situazione?
Spero che si riesca a contenere l’impatto con un dazio generalizzato del 10% e non superiore. Anche perché quella tabella tanto discussa presenta un errore strutturale. La Camera di Commercio Internazionale ha giustamente criticato non solo il semplicistico metodo matematico adottato dalla Casa Bianca, ma soprattutto la parzialità della formula: considera solo un aspetto del problema, quello merceologico, nei rapporti commerciale tra Stati Uniti e resto del mondo, ma non affronta il rapporto dei servizi.
E com’è, oggi, la bilancia commerciale tra Italia e Stati Uniti?
A livello merceologico l’Italia registra un surplus importante, quasi 39 miliardi di euro, esportiamo negli Stati Uniti molti più beni di quanti ne importiamo. Tuttavia, come hanno osservato gli esperti della Camera di Commercio Internazionale, questo squilibrio si ridimensiona notevolmente se si includono anche i servizi. In quel settore, gli Stati Uniti sono leader globali: pensiamo alle big tech e ai servizi digitali. Sommando beni e servizi, la bilancia tende quasi ad equilibrarsi, riducendo notevolmente il surplus italiano.
Secondo lei, qual è la vera motivazione dietro l’eventuale reintroduzione dei dazi?
Credo che alla base ci sia un’esigenza piuttosto semplice: fare cassa. Al di là delle motivazioni politiche e delle implicazioni internazionali, l’obiettivo concreto è quello di raccogliere risorse. Trump ha più volte annunciato l’intenzione di ripristinare i tagli fiscali del 2018, il cosiddetto Tax Cuts and Jobs Act, una riforma fiscale molto ampia che ha trasformato il sistema americano. Per farlo servono coperture economiche.
Il Made in Italy continua ad avere un forte appeal negli Stati Uniti. È ancora conveniente investire lì?
Assolutamente sì. Il nostro know-how resta un grande vantaggio competitivo. Le aziende italiane dovrebbero valutare anche l’ipotesi di produrre direttamente in alcune aree degli Stati Uniti. Penso, ad esempio, al New Hampshire, dove c’è una forte domanda nel settore navale grazie alla lunga tradizione produttiva legata alla marina americana. In certe zone si trovano non solo incentivi fiscali, ma anche manodopera qualificata e competenze tecniche consolidate. Sono territori dove può davvero valere la pena investire.
Dalla sua esperienza, il sogno americano è ancora vivo?
Il sogno americano è cambiato rispetto a quello raccontatoci da Hollywood, ma si fonda ancora su un concetto essenziale: l’opportunità. Per chi, come me, viene dal Sud Italia, ottenere un’opportunità non è mai stato scontato. Qui, invece, vige una meritocrazia reale. Ti viene data una possibilità: se dimostri di essere all’altezza, cresci e vai avanti. Se no, ti mettono alla porta senza tanti complimenti. È inoltre un mercato estremamente competitivo: puoi raccontarmi di essere il miglior giornalista del mondo, e io potrei anche crederti e darti una chance. Ma se non lo dimostri sul campo, l’opportunità finisce lì, e si darà spazio al prossimo.