L’attrice e regista britannica Trudie Styler ha presentato a Los Angeles il documentario Posso Entrare, nato dal suo primo incontro con Napoli. Invitata da MAD Entertainment e sostenuta dalla Rai, Styler ha attraversato la città con occhi nuovi, bussando letteralmente alle porte dei suoi abitanti per raccontarla attraverso le loro storie. Abbiamo intervistato la Styler in occasione di un evento all’Istituto Italiano di Cultura, dove ha avuto una conversazione con Dante Spinotti, storico direttore della fotografia con cui ha condiviso il progetto.
Com’è nato il progetto “Posso Entrare” e cosa l’ha spinta a raccontare Napoli da una prospettiva così intima?
Sono stata contattata da MAD Entertainment — da Luciano e Lorenzo Stella, e da Carolina Terzi — che mi hanno proposto l’idea di un documentario su Napoli, sostenuto dalla Rai. Quando ho detto che non c’ero mai stata, hanno risposto: “Perfetto! La Rai cerca proprio uno sguardo nuovo, occhi vergini sulla città.” Napoli, infatti, è spesso raccontata con pregiudizi: è vista come pericolosa, disordinata… Così ho accettato la sfida. Conosco bene l’Italia: ho lavorato a Roma e in Toscana, ho partorito un figlio a Pisa, con Sting abbiamo una casa in Toscana e anche una pizzeria. Ma Napoli, fino a quel momento, mi mancava. Ed eccomi qui, quattro anni dopo, con Posso Entrare, presentato all’Istituto Italiano con Dante Spinotti.
Che impressione le ha lasciato Napoli al termine di questo viaggio?
È stata un’esperienza trasformativa. Napoli è magica, misteriosa, piena di contrasti: luce e ombra, gioia e malinconia, musica e silenzio. È una città profondamente emozionale, che mi ha cambiato nel modo di pensare. Nonostante le difficoltà economiche, ho trovato una comunità viva, generosa, accogliente. Napoli è povera di mezzi, ma ricchissima di umanità, di compassione, di risate, di canzoni. È una città che celebra la vita ogni giorno.

Com’è stato lavorare nuovamente con Dante Spinotti?
Conosco Dante dal 1987, quando abbiamo girato insieme Mamba (poi diventato Fair Game). Era il mio primo film, avevo un ruolo praticamente da sola per 12 settimane, chiusa in un appartamento con dei serpenti! Greg Henry, l’altro attore, ha lavorato solo tre giorni. In quel contesto, Dante era il mio punto di riferimento: parlava inglese, era presente e sensibile. Dopo tanti anni, ritrovarci per questo progetto è stato naturale. Abbiamo un linguaggio condiviso, uno scambio istintivo.
Nel film, i protagonisti sono spesso persone comuni. Come ha scelto le storie da raccontare?
Alcune le ho cercate, altre sono venute a me. Camminando per Napoli, vedevo le persone dietro le finestre dei bassi — gli appartamenti al piano strada — e per educazione bussavo e chiedevo: “Posso entrare, signora?” La risposta era sempre la stessa: “Sì, vieni, certo!” Mi ritrovavo a bere caffè, giocare con i bambini, parlare con chi viveva lì, chiedere cosa pensassero della città, del loro quartiere. Da questi incontri spontanei sono nate connessioni più profonde. Mi dicevano: “Devi conoscere Don Antonio!” — Don Antonio Loffredo, che fa tantissimo per il quartiere Sanità. Così, passo dopo passo, la narrazione ha preso forma.
Se dovesse scegliere una sola cosa che ama di più di Napoli?
Non potrei. Sarebbe impossibile. Napoli è la sua gente. È l’amore per la vita. Come dice Roberto Saviano: “Napoli è sempre oggi.” Perché non sai mai cosa verrà dopo. Napoli è qui. Adesso.