Silvia Sunseri è una giovane professionista italiana che ha costruito il proprio percorso tra Milano e New York, coniugando competenze accademiche e impegno nella divulgazione educativa. Laureata alla Bocconi, ha proseguito gli studi con un master interdisciplinare alla Columbia University. Oggi lavora nel settore della data science, occupandosi di analisi e ottimizzazione dei processi decisionali per aziende innovative. Parallelamente, gestisce una community digitale in costante crescita, nata dall’esigenza di condividere strumenti e risorse con studenti italiani interessati a percorsi universitari internazionali. La sua pagina Instagram è diventata un punto di riferimento per chi cerca informazioni chiare e supporto concreto su application, borse di studio e orientamento accademico. L’abbiamo intervistata per il Newyorkese.
Che ruolo ha avuto la formazione accademica nel tuo percorso personale e professionale?
Sono cresciuta a Milano, in una famiglia dove l’educazione è sempre stata un valore importante. Non provenivo da un contesto legato all’economia, ma sono sempre stata molto curiosa: mi interessava capire cosa c’è dietro le dinamiche che muovono il mondo. Per questo, dopo il liceo, ho scelto la Bocconi: è stata una decisione razionale, dettata dalla solidità dell’offerta formativa. Quando ero all’università in Italia, mi rendevo conto che stavo imparando molto, ma non abbastanza su come funziona il mondo fuori da lì. Durante la triennale ha avuto l’opportunità di studiare negli Stati Uniti. È stato un vero spartiacque. Durante l’exchange program alla University of Texas ad Austin ho scoperto un sistema completamente diverso, più aperto, partecipativo, multidisciplinare. Le lezioni erano in classi più piccole, i professori ti conoscevano per nome e c’era molto più spazio per il confronto e il pensiero critico. Ma ciò che mi ha colpita di più è stato tutto ciò che avveniva fuori dall’aula: potevi lavorare nel campus, fare volontariato, entrare in club tematici. Non eri solo una studentessa, ma una persona con mille dimensioni. Tornata in Italia, sapevo già che non mi sarei fermata lì — volevo continuare a crescere fuori dai confini.
Dopo l’esperienza all’estero, come sei riuscita a costruire concretamente il passaggio verso un percorso accademico negli Stati Uniti?
Quando sono tornata a Milano per concludere la triennale, avevo già dentro di me una convinzione molto chiara: il mio futuro non sarebbe stato in Italia. Sentivo che la mia storia doveva continuare negli Stati Uniti. Ma era tardi per presentare le application e ricordo perfettamente il momento in cui, guardandomi allo specchio, ho detto a mio padre: “Mi prendo un anno sabbatico”. Poi è successo qualcosa. Ho parlato con la mia relatrice alla Bocconi, che mi ha proposto di collaborare come assistente di ricerca con un professore. Poco dopo ho iniziato a lavorare anche con un docente di Harvard. Quelle esperienze sono state fondamentali: non solo mi hanno dato fiducia, ma mi hanno aperto nuove prospettive. Entrambi mi hanno suggerito un master alla Columbia University, un programma interdisciplinare che univa metodi quantitativi e scienze sociali. Ho inviato l’application nel pieno della pandemia, con poche aspettative. Invece, mi hanno presa. E a settembre ho fatto le valigie per New York. Lì è cominciato davvero il mio nuovo capitolo: intenso, bellissimo, ma anche molto impegnativo. La Columbia è un’università che ti mette costantemente alla prova, ma ti restituisce molto in termini di crescita. Ho scelto un master in Quantitative Methods in the Social Science. Ho lavorato con docenti straordinari, svolto stage, costruito una rete solida. Ma non è stato tutto facile. Vivere a New York è molto costoso, il sistema accademico è competitivo, e non c’è sempre margine per sbagliare. Per questo oggi cerco di raccontare anche quello che spesso resta nascosto: cosa c’è davvero dietro un’ammissione in una Ivy League, dietro una borsa di studio. Le incertezze, i sacrifici, ma anche le scelte strategiche che ti permettono di arrivarci.
Da lì è nato anche un altro percorso, quello legato alla tua attività sui social media attraverso la pagina: Silvia Tips. Com’è nata la tua community online?
È nato tutto un po’ per caso, ma soprattutto per necessità. Quando ho deciso di iscrivermi ad un’università americana, mi sono resa conto di non avere idea da dove cominciare. Non sapevo cosa fosse il GRE, come si scrive una personal statement, quali borse di studio cercare o come si sceglie un’università. E la cosa più difficile era che non avevo nessuno a cui chiedere: né in famiglia, né all’università. Mi sono sentita sola, spaesata. Così mi sono detta: se io sto vivendo tutto questo spaesamento, sicuramente anche altri ragazzi si sentono così. Ho aperto la mia pagina Instagram per condividere tutto quello che stavo imparando e fornire consigli pratici, per chi, come me, ha il sogno di studiare negli Stati Uniti — un mondo che a volte ci sembra così chiuso e lontano. La risposta è stata travolgente. Tanti mi scrivevano per dire: “Grazie a te ho scoperto che si può fare”. Una ragazza mi ha scritto: “I miei genitori non vogliono che parta, come li convinco?” Così ho coinvolto mia madre in una diretta: le ho chiesto di raccontare la sua esperienza, di spiegare come si è convinta a lasciarmi andare. È la community che avrei voluto avere io, quando ho iniziato. Quella gratitudine, quella voglia di provarci — per me è questo il vero successo. Oggi siamo oltre 9.000 persone, ma non è il numero che conta: è l’energia, la solidarietà, il senso di possibilità che abbiamo costruito insieme.
Hai raccontato che all’inizio avevi paura del giudizio. Come hai superato quella barriera?
Con tanta fatica. Ricordo ancora il mio primo reel: mi sentivo ridicola, fuori posto. E invece sono arrivati solo commenti gentili, rispettosi. La mia community è davvero speciale, e mi ha fatto sentire al sicuro sin da subito. Anche il nome della pagina non è arrivato per caso: ci sono volute due settimane di brainstorming con le mie migliori amiche. Può sembrare una sciocchezza, ma trovare un nome che ti rappresenti davvero non è facile. È il tuo primo biglietto da visita, il tuo modo per dire: “Ecco chi sono, e perché lo faccio.” Esporsi richiede coraggio. Raccontare la propria storia, metterci la faccia, ancora di più. Mi ha aiutato l’idea che non lo stavo facendo per “piacere” o per “farmi notare”, ma per aiutare chi si sente perso. Questo cambia tutto. Ti toglie il peso del giudizio e ti dà una direzione.
E oggi com’è la tua vita a New York? Hai trovato il tuo posto nel mondo?
Dopo l’esperienza alla Columbia, le opportunità si sono moltiplicate. Ho avuto la possibilità di lavorare con diverse aziende, tutte attive nel mondo della data science. Ogni esperienza è stata un tassello prezioso: mi ha insegnato qualcosa di nuovo e, soprattutto, mi ha aiutato a colmare il divario tra teoria e pratica. È così che sono cresciuta, non solo come professionista, ma anche come persona. Oggi ho intrapreso un nuovo capitolo in una startup giovane e dinamica. È un ambiente che respira innovazione, dove ogni giorno metto in pratica ciò che ho imparato e continuo ad imparare, costantemente. New York è il cuore di tutto questo. È una città che non ti lascia tregua, ma ti fa sentire viva. Quello che però mi fa sentire davvero al mio posto è sapere che sto contribuendo a costruire qualcosa che prima non c’era: una rete, un supporto concreto, un’occasione in più per chi, come me qualche anno fa, ha il coraggio di provarci.
Che cosa diresti a chi sogna di studiare all’estero ma ha paura di non farcela?
Direi che la paura è normale, tutti la proviamo. Anch’io, mille volte, mi sono detta: “Non sono abbastanza”, “Non me lo posso permettere”, “È troppo complicato.” Ma ho capito che le barriere più grandi non sono là fuori: sono dentro di noi. Studiare all’estero non è un privilegio per pochi, non è riservato a chi ha contatti o disponibilità economiche illimitate. Io infatti ho dovuto prendere un prestito bancario per finanziare gli studi ma se lo si vuole davvero fare, bisogna almeno provarci.
Lo dico per esperienza: non bisogna aspettare il momento perfetto, perché non arriverà mai. Non ci si sentirà mai del tutto pronti, e va bene così. La chiave è iniziare, anche a piccoli passi. Cercare, leggere, sbagliare, chiedere aiuto. Anche io, all’inizio, pensavo che la Columbia fosse un sogno irraggiungibile. Eppure, eccomi qui. A volte basta solo questo: il coraggio di crederci. E io, oggi, provo ogni giorno ad tenere quella porta aperta per qualcuno in più.