Lo chef Peppe Zullo non ha bisogno di molte presentazioni grazie alla maestria della propria professione che lo porta in ogni angolo del mondo svelando… non proprio tutti! i suoi segreti culinari. È un personaggio cordiale e disinvolto, dal volto solare, con tanto di occhietti aguzzi che lo rendono perspicace. Nel frattempo ci accoglie a braccia aperte.
È vero che siamo quello che mangiamo?
«Certamente… ‘Of course we are what we eat’. Personalmente ho vissuto molti anni negli Stati Uniti facendo attività di ristorazione. Un modo d’avere a che fare col cibo cercando di alimentare bene gli americani. E questo seguito dal motto ‘We are the air we breathe’, ovvero ‘siamo l’aria che respiriamo’, visto che è basilare invitare le persone a respirare bene in luoghi non contaminati accanto alla bella natura a nostro fianco che ci nutre sapientemente.»
Beh… non è che oltreoceano tale popolo si nutra proprio bene.
«Posso essere d’accordo, tuttavia una filosofia di vita da parte di qualcuno di loro esiste. Fermo restando che anche noi in Europa siamo un po’ disattenti, nonostante io stesso, Peppe Zullo, cuoco-contadino, osservi che esistono luoghi in cui vale la pena vivere. Eccomi quindi tutto intero nella mia amata Puglia, sui monti Dauni, posto incontaminato, dove il cibo cresce coltivato assieme a quello selvatico troppo trascurato: il famoso ‘foraging’ che ci appartiene facendoci bene.»
Concordo. Arriviamo adesso al “punto caldo”, visto che sempre d’America parliamo: qual è il motivo per cui si spostò? Per imparare la lingua? Per ulteriori conoscenze? Per amore? Insomma, per quale cavolo d’idea cambiò nazione?
«Mi spostai negli States negli anni ’70, un periodo che esaltava l’‘American Dream’, il sogno americano, aprendo un ristorante nel ’78 e continuando poi a girare nel Centro America. Questo per capire come si muoveva il mondo sotto l’aspetto della ristorazione e del cibo. Più tardi, eccomi rientrato a Orsara, in Puglia.»
Osservandola nel suo essere ‘tipo tosto’, con tanto di piglio manageriale, a nostro avviso… ne ha conosciuta anche tant’altra d’America!
«Esatto, mi spostai a Boston, nel Massachusetts, Las Vegas, Los Angeles, Messico sulla West Coast, Guadalajara ed altro ancora per lavorare, ma soprattutto per capire. La sete di conoscenza non deve mai morire.»
Cosa apprezzò maggiormente nel corso di quegli anni?
«Sicuramente gli americani sono molto bravi nel marketing… presumo proprio l’abbiano creato loro! Ho imparato lezioni utili per la mia attività. Tuttavia, per quanto riguarda la mia filosofia volta al buon cibo e alla conseguente buona vita, la approfondisco giorno dopo giorno, dal momento che ne sono un vero e proprio cultore. Chiaramente, rispettando ogni forma di pensiero, apprezzo non poco il loro motto ‘Believe in what you do’, che mi porta a credere maggiormente in ciò che facciamo. È evidente che da soli non si va da nessuna parte: c’è bisogno del resto del mondo per fare ciò che ti piace, condividendo con altri e, perché no, facendo business, di cui loro sono ottimi maestri.»
Inevitabile pensare che lei conosca molto bene le lingue.
«Hablo español bastante bien, nonché l’inglese.»
E quanto prende per tali lezioni linguistiche?
«Preciso che le mie sono lezioni di cucina facend…»
Guardi che scherzavo…
«L’avevo capito che lei è una donna ironica e proseguo osservando che fondamentalmente faccio ‘incoming’ con i vari ‘wine and food lovers’, che vengono in Italia e nella mia regione imparando a raccogliere, coltivare e cucinare.»
Puro e lampante che lei è attaccatissimo alla sua terra.
«Certo, bisogna vivere in ambienti affini al proprio carattere, è fondamentale, come conoscere nuove culture dove ho costruito tante belle storie ed esperienze, come le collaborazioni con varie scuole di cucina, con studenti che incontro per far loro imparare. Personalmente collaboro con ‘Enzo’ ed ancora con ‘Alma’ – n.d.r. scuole internazionali di cucina italiana – ricordando quel progetto bellissimo di scambio culturale enogastronomico al ‘George Brown College’ di Toronto, ‘forte’ di quello slogan ‘Simple food for smart people’. E quindi niente di astruso: sostanzialmente cibo semplice, facile da proporre, salutare e democratico, per persone che ne capiscono l’importanza. Tutto questo apprezzandolo nella mia azienda-ristorante ad Orsara e non solo.»
Innegabile pensare che sia stato pluripremiato.
«Ne ho ricevuti molti, lo confesso, e quello che ho apprezzato maggiormente è il riconoscimento da parte dell’Unesco – chiarisco che non è patrimonio Unesco – con la motivazione: ‘d’alta professionalità svolta nella mia azienda’, volta al recupero delle varie cibarie, cucinandole poi per tutti i nostri ospiti. Un premio che mi ha inorgoglito, e non poco, è quello recente di ‘Cuoco contadino dell’anno’ – Agrichef – dal momento che essere cuoco e contadino è molto importante. Tanti cuochi e tanti contadini dovrebbero esserne ben orgogliosi.»
Bene, direi di terminare. Se vuol aggiungere qualcosa, siamo a sua disposizione.
«Ehhh… mi faccia pensare. Ecco. Sono appena rientrato dall’Uzbekistan, premiato quale ‘Cuoco Italiano’ per la ‘Settimana della cucina italiana nel mondo’. Con piacere le mostro queste fotografie davanti all’Ambasciata d’Italia e qui ancora con i loro tipici costumi neri con risvolti dorati e il tradizionale cappello, presso un coloratissimo mercato, apprezzando i loro piatti, le loro anfore, teli vari e borsette variopinte.»
Il treno per Foggia-Firenze è in partenza. Sembrerà strano, ma l’intervista era programmata proprio alla stazione foggiana, di ritorno da ‘Premitour’, un’associazione enogastronomica dedicata stavolta al viaggio della scoperta degli oli ‘Dop’ del nord della Puglia, per ‘Special Expò Edition 2024’. Peppe Zullo, invitato anche lui a tale tour, era poi corso via nell’adempiere i numerosi impegni lavorativi, riuscendo poi a coglierlo il giorno successivo tra i simpatici suoni del: “ciuf, ciuffff, ciufffffff!»